Recovery fund: l’Italia al bivio
Scritto da Pasquale Angius in data Ottobre 5, 2020
Eurobond, Recovery fund, Next generation EU, MES, una serie di sigle astruse: facciamo chiarezza e cerchiamo di capire cosa sono e come funzionano.
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Oggi parliamo di un argomento di attualità, che svilupperemo nell’arco di alcune puntate perché si tratta di un argomento molto tecnico e quindi è necessario allargare un po’ gli orizzonti per capire il contesto generale, altrimenti ci si perde nei dettagli tecnici e si guarda l’albero ma non si vede la foresta. Il tema è quello del Recovery fund detto anche Next generation EU, del rapporto con l’Europa, e del famigerato MES, il Meccanismo europeo di stabilità.
Cominciamo da un libro uscito molti anni fa con un titolo emblematico che sintetizzava, nella sua causticità, lo spirito di un intero Paese, il nostro.
Io speriamo che me la cavo
Marcello dell’Orta faceva il maestro elementare ad Arzano, un piccolo comune a nord di Napoli. Nel 1990 pubblicò un libro dal titolo, appunto, “Io speriamo che me la cavo” che divenne in breve tempo un bestseller con oltre due milioni di copie vendute. Ispirandosi a quel libro, due anni dopo la regista Lina Wertmüller girò un film interpretato da Paolo Villaggio. In quel libro il maestro Dell’Orta riportava brani dei temi dei suoi alunni, dai quali emergeva l’innocenza di quei bambini ma anche le loro terribili lacune linguistiche: la commistione, con effetti esilaranti, tra italiano e dialetto, l’involontario umorismo di ragazzini che vivevano in un contesto sociale, economico e culturale difficile e per molti aspetti arretrato. Quel libro era una sorta di amaro affresco neorealista del contesto del nostro sud, scambiato, nel successo editoriale, per un libro umoristico. Gli “sgarrupati” bambini di quella scuola, uno dei quali scriverà in un suo tema Io speriamo che me la cavo offrendo il titolo al libro all’autore, ci fanno ridere o sorridere ma si tratta di un sorriso amaro perché la realtà che li circonda è fatta di miseria e difficoltà economiche, di camorra e criminalità organizzata, di prostituzione, di contrabbando, di minorenni ingravidate, di lavoro minorile, di famiglie perennemente problematiche; una realtà fatta di ignoranza e disagio sociale, nella quale lo Stato è praticamente assente e scarse sono pure le prospettive per quei bambini innocenti, le cui esistenze sono già segnate dalla maledizione di essere nati nel posto sbagliato.
Il titolo di quel libro è diventato, nel corso degli anni, una sintesi dello spirito italico, una sintesi delle sorti di un intero Paese, l’Italia, che spera sempre di cavarsela nel turbinio degli eventi con un misto di speranza e rassegnazione, incazzatura e velleitarismo, buoni propositi e pessimi comportamenti.
Ma ci sono momenti nella storia di un Paese nei quali tutti i nodi vengono al pettine e tutto quello che fino al giorno prima veniva accettato come male minore o ineluttabile diventa improvvisamente un ostacolo enorme, un problema insormontabile.
Lo abbiamo visto nella gestione dell’emergenza sanitaria causata dal coronavirus e lo abbiamo visto, ancor di più, nella gestione dell’emergenza economica.
Improvvisamente ci siamo accorti di una cosa che tutti sapevamo ma facevamo finta di non sapere: non abbiamo una classe dirigente degna di questo nome. A qualunque livello, che sia quello del governo nazionale o locale, o nel caso delle innumerevoli commissioni di esperti di ogni materia dello scibile umano, chiamati ad affiancare una classe politica impreparata e incapace, sempre abbiamo visto mandrie di dilettanti allo sbaraglio.
La seconda drammatica scoperta che abbiamo fatto, anche questa a dire il vero la scoperta dell’acqua calda, è che abbiamo un’amministrazione pubblica – quella che chiamiamo con termine piuttosto dispregiativo “la burocrazia” – inefficiente, inutilmente sovradimensionata, impelagata in un arcipelago di norme e procedure tanto contorte quanto balorde, sostanzialmente incapace di svolgere quelle funzioni che dovrebbero essere la sua ragion d’essere. L’INPS che non riesce a erogare quattro bonus, le Regioni che non riescono a organizzare i tracciamenti dei malati, i super commissari super stipendiati che non riescono a risolvere problemi in realtà semplici, come i rifornimenti e la distribuzione delle mascherine, e via di questo passo.
Ora va detto, a onor del vero, che la situazione era del tutto imprevista, che si è trattato di un’emergenza di dimensioni alle quali non eravamo più abituati e va anche detto che in altri paesi, sia europei che extraeuropei, abbiamo assistito a performances di leader politici che rasentavano il grottesco e al cui confronto i nostri simpatici pasticcioni hanno finito per sembrare degli statisti.
Certo, si tratta di una magra consolazione ma non bisogna nemmeno esagerare nelle critiche: la situazione era oggettivamente molto difficile, il nostro Paese si è ritrovato per primo ad affrontare questo nuovo mostro e le decisioni da prendere erano di quelle da far tremare i polsi.
Inizialmente quando il primo Paese a essere colpito dall’epidemia è stata l’Italia e noi prendevamo i primi provvedimenti restrittivi, abbiamo visto gli altri paesi europei che ci guardavano con un misto di scetticismo e commiserazione, oppure ci definivano degli untori. Gli spagnoli ci deridevano pensando che siamo i soliti melodrammatici, i francesi ci deliziavano con presunte gag comiche nelle quali un pizzaiolo italiano scatarrava su una pizza, un sedicente medico inglese, star di diversi programmi televisivi, sosteneva che per gli italiani ogni occasione è buona per fare la siesta! I greci rimandavano indietro le forme di parmigiano chiedendo un inesistente certificato “virus free”. Gli austriaci chiudevano le frontiere. I tedeschi e i cechi bloccavano l’esportazione di materiali sanitari verso l’Italia. La Polonia proibiva agli aerei cargo russi, che portavano aiuti sanitari all’Italia, di sorvolare lo spazio aereo polacco.
In quei giorni convulsi persino madame Lagarde, governatrice della BCE, si è lasciata andare a improvvide dichiarazioni alla stampa nelle quali sosteneva che non era compito suo occuparsi degli spread, come se un medico dicesse che non è compito suo occuparsi delle malattie!
Una crisi europea
Nell’arco di qualche settimana, dato che il virus è democratico e non rispetta le frontiere, anche il resto d’Europa è stato investito dal contagio e frizzi e lazzi hanno lasciato il passo alla paura e alla preoccupazione. In breve tempo tutti si sono resi conto che questa pandemia sarebbe stata il classico “cigno nero”, l’evento inaspettato e imprevedibile che manda all’aria tutte le previsioni e tutti gli equilibri, e che si correva il rischio di far saltare anche l’Unione Europea, già di per sé traballante dopo la Brexit, e l’intera area Euro.
Le leadership europee, soprattutto quella tedesca, si è resa conto che questa volta la situazione era molto più rischiosa di quella della crisi finanziaria del 2008, e quindi occorreva un intervento straordinario. Ma qui, come al solito, si è scatenata la lotta politica tra paesi che hanno oggettivamente interessi molto diversi.
Abbiamo assistito inizialmente a un’epica battaglia ingaggiata dal nostro premier, ex avvocato del popolo, con le truci leadership teutoniche per ottenere gli Eurobond, magica soluzione a tutti i problemi di un’Europa sempre più sfilacciata e stanca.
Quella battaglia è finita com’era prevedibile che finisse! L’Italia, mobilitata questa volta per “spezzare le reni” non alla Grecia – che ormai le reni dopo le amorevoli cure della Trojka se l’è dovute vendere – ma alla Merkel, si è ritirata in buon ordine dopo pesanti perdite. Perdite di credibilità oltre che di tempo.
Ma spieghiamo cosa sono gli Eurobond, o meglio cosa sarebbero visto che sono stati bocciati. Gli Eurobond non sono altro che titoli di Stato, cioè titoli di debito, simili ai BOT e CCT emessi dallo Stato italiano o da qualunque altro Stato. Gli Eurobond avrebbero dovuto essere emessi dalla BCE e dovevano rappresentare, in mancanza di un’entità statale europea, un primo passo verso quella direzione. La garanzia sugli Eurobond avrebbero dovuto prestarla in solido tutti i paesi europei. Gli Eurobond sarebbero stati “debito condiviso”, come dei coniugi che acquistano una casa e si cointestano l’immobile e il mutuo.
Ma i paesi del Centro e del Nord Europa, Germania per prima, si sono sempre rifiutati. Perché?
Qui dobbiamo uscire un po’ dallo sterile dibattito tra europeisti e antieuropeisti, tra coloro che sono a favore dell’euro e quelli che sono contro, tra sovranisti e antisovranisti, tra populisti e antipopulisti, tutti temi che infervorano il dibattito politico italiano ma che sono, in sostanza, delle grandi armi di distrazione di massa perché non aiutano a capire il contesto.
Gran parte della stampa e della politica italiana ci hanno sempre narrato una visione irenica dell’Europa. L’Europa sarebbe una sorta di grande ideale, di grande utopia verso il quale, in un afflato di comune sentire, tutti i popoli europei convergerebbero. La costruzione di quelli che qualcuno già chiama gli Stati Uniti d’Europa, è ancora un progetto in divenire, un percorso lungo e difficile come lo sono tutti i percorsi ambiziosi, anche se è un itinerario ineluttabile e irreversibile. In un mondo sempre più globalizzato l’Europa delle piccole patrie non può funzionare, occorre un’Europa forte e unita per competere con gli altri giganti: gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, l’India. Il nostro futuro e il nostro benessere dipenderanno esclusivamente dall’Europa e dal successo di questo progetto politico.
Questa narrazione molto idealistica e romantica, e per certi aspetti anche suggestiva come sempre lo sono le storie romantiche, fa però un po’ a pugni con la realtà storica e anche con la logica economica.
Torniamo alla domanda che facevamo prima: perché non si fanno gli Eurobond?
Perchè non si fanno gli Eurobond?
Il problema è molto semplice per tedeschi, austriaci, danesi, olandesi, finlandesi, lettoni e via di seguito: di essere solidali con i cosiddetti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) – delicato insulto travestito da acronimo – non gli interessa proprio, non capiscono per quale motivo dovrebbero esserlo!
Per loro il progetto europeo si deve basare soltanto sulla finanza e non sulla solidarietà, principio cardine di qualunque comunità di popoli che intenda farsi nazione.
Ma non è quella la loro visione dell’Europa: non è un’Europa solidale che vogliono. Vogliono un’Europa “mercato comune” dove vendere quelle merci che i loro efficienti apparati produttivi sfornano, e allo stesso tempo tenerci legati in una posizione di minorità economica e finanziaria nella quale ci siamo, tra l’altro, messi da soli, perché potenzialmente siamo loro concorrenti.
Il problema è che la classe politica italiana ha confuso i propri sogni o le proprie aspettative per la realtà.
Il problema è che l’Unione Europea non è quel progetto idilliaco per il quale popoli e nazioni che per secoli si erano allegramente massacrati, improvvisamente hanno deciso di mettere in comune il loro futuro e creare quella che in tedesco si chiamerebbe una “Schicksalgemeinschaft”, una “comunità di destino”, quindi una nazione.
In realtà ognuno interpreta l’Europa a suo comodo, anche perché il progetto europeo è stato costruito su una serie infinita di equivoci, di tesi farlocche, di miti privi di alcun fondamento storico. Inoltre il tentativo, spesso malriuscito, di mediare tra interessi inevitabilmente divergenti ha creato un mastodontico carrozzone burocratico, un apparato barocco di norme e regolamenti, una retorica bugiarda e fondamentalmente falsa su popoli solidali che convergono verso la nuova utopia, gli Stati Uniti d’Europa.
Identità europea
Per anni hanno tentato di “venderci” un’identità europea che in realtà non esiste. Non esiste un’identità europea o una storia europea, esistono identità nazionali e la storia delle nazioni europee: piaccia o non piaccia bisogna prenderne atto con realismo e pensare di forzare la situazione inventandosi un’Europa mitica che non è mai esistita storicamente assomiglia molto alle fantasie di Bossi & C. sulla Padania. Ci possiamo inventare il mito delle sacre acque del fiume Po con raccolta, alle sorgenti, del prezioso liquido da custodire nelle ampolle come fosse l’acqua di Lourdes; ci si può inventare presunte ascendenze celtiche con tanto di folclore di elmi con le corna e altre facezie simili; ci si può appropriare della memoria di Alberto da Giussano o di chiunque altro, ma il dato storico incontrovertibile è che la Padania non esiste e non è mai esistita, come non esistono e non sono mai esistite Topolinia, Paperopoli o Gotham City. Sono tutte frutto della fervida fantasia di autori più o meno geniali ma la storia è un’altra cosa.
E allora ricordiamo un po’ di storia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale furono soprattutto gli Stati Uniti a spingere per una forma di collaborazione tra i paesi dell’Europa occidentale nell’ambito della sfera d’influenza americana. All’epoca c’era il confronto con l’Unione Sovietica e gli USA volevano rafforzare i loro alleati europei principalmente in funzione antisovietica.
Il coinvolgimento della Germania Ovest nei progetti di creazione dei primi accordi di cooperazione che poi si evolveranno nella CEE, parte dalla Francia. I francesi temevano i tedeschi, temevano la naturale vocazione egemonica della Germania. D’altronde i tedeschi nella prima metà del Novecento avevano causato ben due devastanti guerre mondiali e i francesi erano fermamente intenzionati a mettere le briglie ai tedeschi!
Il ragionamento da un punto di vita politico aveva una sua logica. Soltanto “accerchiando” la Germania e coinvolgendola in un progetto di sviluppo politico ed economico più ampio, capace di superare quel nazionalismo pangermanico che aveva raggiunto livelli di ferocia inusitati durante il periodo nazista, sarebbe stato possibile disinnescare il pericolo tedesco. Per fare una metafora di tipo sportivo, si trattava di una strategia simile a quella che applicano talvolta i pugili quando sono stanchi o quando si trovano di fronte un avversario troppo forte che non riescono a battere. Cosa fanno? Lo abbracciano e lo tengono stretto per impedirgli di continuare a tempestarli di pugni. La logica con cui la Francia ha affrontato il problema tedesco è stata sostanzialmente questa.
Poi si arrivò al Trattato di Maastricht e agli anni Novanta. La dissoluzione dell’URSS e del suo impero ridisegnava tutta la geopolitica europea. La possibilità di una riunificazione delle due Germanie, quella Ovest capitalista e quella Est comunista, diventava un’ipotesi realistica.
Anche allora ci fu un gioco delle parti. I francesi non si opposero alla riunificazione a condizione che la Germania unita rinunciasse, nel nuovo contesto dell’Unione Europea, a quelli che erano i due pilastri della sua nuova potenza, principalmente economica: il Marco, la sua valuta, e la Bundesbank, la banca centrale tedesca.
I tedeschi accettarono per varie ragioni. La divisione della Germania era stata una lunga pagina, dolorosissima, della recente storia tedesca e quindi era del tutto comprensibile che la riunificazione fosse per i tedeschi un obiettivo che non aveva prezzo. Secondariamente, i tedeschi si rendevano conto che, con il loro imbarazzante passato storico, potevano creare perplessità e paure negli altri paesi e popoli europei e quindi, per rassicurare i loro partner, dovevano fare delle concessioni. I tedeschi le concessioni le fecero, ma posero alcune condizioni molto importanti a cominciare dal fatto che la nuova Banca Centrale Europea non avrebbe potuto svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza.
I tedeschi non avevano alcuna intenzione di farsi carico dei problemi e dei debiti degli altri partner europei. Per questo l’euro nacque zoppo. C’era la componente finanziaria, la valuta comune, ma mancava l’altra componente essenziale per creare una nazione: la solidarietà.
Nella prossima puntata ci occuperemo del Trattato di Maastricht e della nuova valuta comune, l’euro, per arrivare fino al recente accordo, ancora non definitivo, sul Recovery fund.
Sullo stesso argomento:
- Ricchezza e povertà – Parte 1 di Pasquale Angius per la rubrica Economicando
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