Sirene d’allarme: riflessioni e percezioni su quando avvertiamo pericolo

Scritto da in data Novembre 15, 2023

Claudio Mochi condivide un aneddoto illuminante sul suo lavoro umanitario in zone di conflitto. Durante un dialogo, la sua interlocutrice ha considerato il lavoro degli operatori umanitari “tempo sprecato” a causa di pregiudizi radicati. Questa esperienza evidenzia l’impatto dei meccanismi di difesa umani in situazioni pericolose, dove la comunicazione è compromessa dalla percezione di minaccia, limitando la capacità di elaborare informazioni in modo complesso. 

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In questi giorni siamo tutti più o meno esposti e coinvolti dalle notizie che provengono da varie aree di conflitto nel mondo e vorrei cogliere l’occasione per condividere un aneddoto e alcune considerazioni sui meccanismi d’allarme degli individui riportando il discorso alla nostra quotidianità.

“Perché fai questo lavoro?”, è quello che chiese l’interlocutore seduto accanto a me. Dopo una classica e piacevole conversazione di circostanza, questa persona ad un tratto si fece seria e iniziò così uno scambio che tutt’ora ricordo bene. Ero di buon umore perché mancavo da diversi mesi da casa e stavo rientrando. La passeggera era incuriosita dalla mia presenza perché la zona da cui proveniva soffriva da tempo di un aspro conflitto e non circolavano molti stranieri. Ben presto mi ritrovai a descrivere lo scopo del progetto a cui mi dedicavo. Le dissi che lavoravamo con i bambini nelle scuole e il nostro intento era che le circostanze e le conseguenze del conflitto pesassero il meno possibile nel loro quotidiano e sul loro futuro.

Il nostro progetto si rivolgeva alla parte avversa rispetto a quella della mia interlocutrice. Ero consapevole che, siccome la mia attività sosteneva coloro che lei riteneva essere dei “nemici”, non sarebbe stata percepita bene. In una zona di conflitto, pur essendo neutrali e privi di alcun coinvolgimento politico, si è spesso impegnati nel lavorare con i civili di una o dell’altra fazione. Avevo esperito negli anni una discreta gamma di reazioni avverse e minacce a causa di una mia presunta presa di posizione. Al contrario di altri, la mia interlocutrice tuttavia non prese male quello che dicevo, semplicemente non riusciva a comprenderlo, per lei non aveva senso. “Per me stai perdendo tempo”, mi disse ad un certo punto. E dopo una pausa aggiunse: “Tra loro regna la totale inciviltà. Loro non hanno niente, non hanno costruito nulla. Dove vivono non ci sono strade né infrastrutture”. Continuò su questo tono e concluse affermando: “Sono bestie e quello che fate è tempo sprecato”.

Bambini, guerra e il potere del gioco

Era una persona dai lineamenti delicati e mentre pronunciava il suo punto di vista il suo volto e i movimenti non tradivano rabbia né assenza di controllo, bensì compostezza assoluta. Quello che diceva per lei era un dato di fatto, la realtà delle cose. Quei bambini che nessuno poteva veramente proteggere e a cui cercavamo di offrire il possibile per crescere sani nonostante le circostanze erano per lei delle “bestioline che non meritavano nulla”. Può sembrare strano, ma questa rivelazione non mi provocò rabbia o avversione nei suoi confronti. Forse perché non si può lavorare nel settore umanitario se non si coltiva l’assenza di giudizio, o forse mi era chiaro che parlava senza conoscere minimamente la realtà della controparte. Ricordo il mio sforzo nel cercare di ragionare con lei. Utilizzai delle argomentazioni in favore di quei minuscoli bambini e dei tantissimi civili che, a mio modo di vedere, avevano solo il ruolo di subire le scelte di altri.

Non mi aspettavo certamente che cambiasse idea. Ingenuamente pensavo che il mio punto di vista potesse ampliare la conversazione. Ero più giovane ed inesperto ma avrei comunque dovuto sapere che era impossibile. L’esposizione a situazioni di costante pericolo ha un impatto enorme sul nostro organismo incluso il nostro modo di vedere il mondo e di elaborare le informazioni che ricaviamo. L’essere umano è per diversi aspetti rigido e tendenzialmente conservativo e queste disposizioni si esaltano soprattutto quando sente di essere minacciato. Nello scambio tra gli individui e il mondo circostante entrano spesso in azione dei meccanismi che ostacolano la nostra comunicazione, la capacità di comprensione di quanto avviene, di entrare in connessione con altre persone e, più in generale, la nostra crescita e le nostre possibilità.

Quando ci sentiamo attaccati, attiviamo una modalità di protezione. È una modalità antica che ci impone di focalizzarci in modo preponderante sulla fonte del pericolo. Da uno stato di rilassatezza o consapevole vigilanza entriamo in uno stato di allarme. Seguendo un protocollo scolpito nella nostra eredità genetica ci prepariamo per affrontare o fuggire dal pericolo a meno che il pericolo venga considerato superiore alle nostre forze e allora ci blocchiamo completamente. Quando ergiamo le nostre difese aumentiamo le possibilità di tutelare la nostra incolumità fisica ma involontariamente rinunciamo anche a quello che di più evoluto ci caratterizza: diventiamo incapaci di modulare il nostro stato emotivo e di innescare quei processi di profonda connessione emotiva che non solo promuovono il nostro benessere ma consentono anche di sentirci protetti e sostenuti.

Anche la nostra capacità di gestire ed elaborare le informazioni è fortemente ridotta. Quando siamo in pericolo la nostra vita dipende da scelte rapide. Nonostante ci siamo evoluti, nelle situazioni di pericolo regrediamo e ci catapultiamo nella classica situazione del leone e la gazzella. Qualsiasi circostanza classificata come pericolosa viene tradotta dalle zone più antiche del cervello come una minaccia per la nostra incolumità, anche se la minaccia ha una natura prettamente psicologica o emotiva. Quello che abbiamo appreso nel corso dei millenni è che per sopravvivere si attacca o si fugge e non vi è spazio per operazioni mentali complesse che permettono, ad esempio, di dialogare, riflettere o studiare nuove strategie. Di fronte al pericolo siamo spinti ad agire o meglio a reagire, il nostro campo percettivo si restringe e il comportamento diventa più automatico. Per tutelare la nostra integrità fisica sacrifichiamo il nostro bene più grande: l’intenzionalità, che si fonda sulla capacità di astrarci dalla situazione e ponderare tutte le opzioni a disposizione.

Claudio Mochi

Claudio Mochi è docente, autore e speaker internazionale esperto in interventi di emergenza e trauma con oltre 20 anni di esperienza in contesti di crisi e post-disastro. Claudio è Psicologo e Psicoterapeuta, Registered Play Therapist Supervisor™ dell’APT degli Stati Uniti. Fondatore e Presidente dell’Associazione Play Therapy Italia APTI, Direttore scientifico del programma formativo e del master universitario dell’International Academy for Play Therapy (INA) con sede a Lugano, Svizzera. Nel 2015 ha ottenuto negli Stati Uniti il premio “Outstanding contributions to the practice and teaching of Filial Therapy”.

Pubblicazioni recenti: Cassina I., Mochi C. and Stagnitti K. (eds.) (2023) Play therapy and expressive arts in a complex and dynamic world: Opportunities and challenges inside and outside the playroom, UK: Routledge. Mochi C. (2022) Beyond the clouds: An autoethnographic research exploring good practice in crisis settings, USA: Loving Healing Press. Mochi C. e Cassina I. (2021) Introduzione alla play therapy. Quando il gioco è la terapia, Svizzera: INA Play Therapy Press.

Song credits: Bethel Music feat. We The Kingdom | Peace
Foto credits: Foto di Viktor Forgacs su Unsplash

 

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