11 novembre – Notiziario in genere

Scritto da in data Novembre 11, 2019

La tecnologia ci sta portando nuove forme di violenza contro le donne. I governi – e le aziende – devono prenderne atto e agire di conseguenza. Proteste in Libano e attivismo. Cina, violenza contro la popolazione kazaka: a pagare sono soprattutto le donne. Etiopia: unica presidente donna dell’Africa (in copertina) E infine: in aumento il numero delle ragazze ivoriane potenziali vittime di tratta sulla rotta del Mediterraneo centrale.

Il webnotiziario In Genere di Radio Bullets, a cura di Lena Maggiaro e con la voce al microfono di Barbara Schiavulli

Soundtrack: Taylor Swift -Shake it off / Roberto – African Woman / Rachel Platten – Fight Song / Silent Mountain

Internet e nuove forme di violenza

Internet sta portando nuove forme di violenza contro le donne. Ed è tempo di parlarne. È quanto emerge da un’analisi di Human Rights Watch. Katie Hill, componente del Congresso degli Stati Uniti eletta alla Camera dei Rappresentanti meno di un anno fa, si è dimessa a fine ottobre, giorni dopo che le sue foto di nudo – che sostiene siano state diffuse senza il suo consenso – sono state pubblicate online dai media. Hill, 32 anni, è anche accusata di aver violato le regole della Camera intrattenendo una relazione sessuale con una persona dello staff. Lei nega questa accusa. Ma si è comunque dimessa, citando le “foto private di momenti personali” che erano state usate come “un’arma” contro di lei. E aggiungendo che era “spaventata da ciò che potrebbe succedere dopo”.

Molte persone – il 90% delle quali donne e ragazze – hanno vissuto online una qualche forma di violenza sessuale, incluso ciò che Hill descrive. Le foto compromettenti sono state usate contro le persone da quando esistono le macchine fotografiche, ricorda Human Rights Watch. Ma i media online, dove tutto è a portata di screenshot – presentano opportunità di abuso che non sono mai esistite prima.

Gli autori di questi abusi sono stati veloci nel cogliere le “opportunità” dei nuovi mezzi: umiliare, distruggere carriere, reputazione e relazioni, e persino portare le vittime al suicidio o scatenare la cosiddetta violenza “d’onore” nelle società in cui il sesso al di fuori del matrimonio è considerato vergognoso. Hanno trovato opportunità per monetizzare i loro abusi: in Corea del Sud, dove Human Rights Watch sta attualmente approfondendo il problema, le piattaforme fanno pagare agli spettatori la visione di filmati “spycam” di donne e ragazze girati inconsapevolmente nei bagni e negli spogliatoi.

E una volta che l’immagine è stata pubblicata una volta, il danno è permanente. Anche se l’originale viene rimosso, schermate e altre copie possono riapparire in qualsiasi momento.

Le società Internet non riescono a comprendere l’impatto e l’urgenza di questi casi. Troppo spesso non riescono a rimuovere le immagini non consensuali, hanno procedure lente e complesse per tali richieste e non riescono ad agire abbastanza rapidamente quando le immagini riappaiono.

Peggio ancora è la risposta dei governi, scrive ancora Human Rights Watch. In molti paesi, le leggi non vengono aggiornate e la condivisione non consensuale di immagini intime potrebbe non essere nemmeno illegale. Laddove si tratta di un crimine, la polizia spesso non ha la dovuta esperienza, né gli strumenti e la sensibilità per indagare e sostenere le vittime.

La tratta delle ragazze ivoriane

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha pubblicato un briefing su un nuovo fenomeno di sfruttamento recentemente emerso a seguito dell’analisi dei flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo Centrale. Nel corso dell’ultimo anno l’OIM, presente nei principali punti di sbarco italiani con diversi team anti-tratta, ha rilevato un aumento della presenza di ragazze provenienti dalla Costa d’Avorio. “Abbiamo ragione di credere che molte di queste ragazze siano purtroppo vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e a volte anche sessuale”, spiega Laurence Hart, Direttore dell’Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo dell’OIM.

I numeri relativi agli arrivi via mare dei migranti provenienti dalla Costa d’Avorio, si legge nella nota, rivelano come, a una riduzione del numero complessivo dei migranti di nazionalità ivoriana in ingresso in Italia negli ultimi anni, corrisponda il progressivo aumento della percentuale di donne coinvolte, dall’8% sul totale dei migranti di questa nazionalità sbarcati nel 2015 al 46% del 2019.

“Nella maggioranza di casi il paese di partenza è la Tunisia, e, dai colloqui che abbiamo avuto con queste giovani ragazze, pare evidente che ci troviamo di fronte a quello che può essere definito un fenomeno di re-trafficking”, continua Hart. “Molte, reclutate nel loro paese per lavorare come domestiche o cameriere, diventano invece vittime di servitù domestica una volta arrivate in Tunisia o in Libia, dove sono sottoposte a maltrattamenti, violenze e privazione della libertà personale, nonché costrette a subire abusi sessuali da parte dei loro sfruttatori. A questa fase ne segue un’altra, che prevede un ulteriore sfruttamento in Europa organizzato da persone che si dicono disposte a farsi carico dell’organizzazione e dei costi della traversata nel Mediterraneo, ma che poi hanno intenzione di sfruttare le vittime una volta giunte in Italia o in altri paesi dell’Unione Europea”.

Dopo lo sbarco in Italia alcune di queste vittime, consapevoli di poter incorrere in una rinnovata condizione di sfruttamento, hanno deciso di chiedere aiuto all’OIM, si legge ancora nella nota.“La scoperta di questo circuito di sfruttamento”, sottolinea il Direttore OIM, “dimostra ancora una volta come dietro ai numeri degli sbarchi ci siano storie molto drammatiche, di cui spesso si sa troppo poco. Non possiamo fare a meno di pensare alle ragazze ivoriane morte lo scorso 7 ottobre nel corso del naufragio avvenuto al largo di Lampedusa, una tragedia che ci riporta alla memoria l’altro drammatico incidente che nel 2017 causò la morte di 26 ragazze nigeriane, anche loro probabili vittime di tratta.”

“Occorre fare di più per proteggere queste gruppi vulnerabili, che non solo subiscono una lunga serie di abusi e violazioni di diritti umani ma poi si trovano costrette a rischiare di morire in mare”. “Come OIM ribadiamo la nostra volontà a continuare a impegnarci nella lotta alla tratta di esseri umani, promuovendo attività di identificazione e di protezione delle vittime rafforzando l’esistente stretta collaborazione con Procure, Forze dell’Ordine, Ministeri e organizzazioni che lavorano sul territorio.”

Libano

Da tempo in Libano ci sono manifestazioni contro il governo, ricorda Federica Gentile su Ladynomics. Proteste che hanno paralizzato il paese e che hanno avuto come risultato a fine ottobre le dimissioni del primo ministro Saad Hariri. Come si legge su Open Democracy, le donne libanesi hanno partecipato attivamente alle proteste. Middle East Eye sottolinea il loro ruolo in prima linea: “Hanno formato barriere umane tra chi protesta e la polizia, in modo tale da assicurare che la rivoluzione libanese sia pacifica”. Donne di diverso status sociale, livello di istruzione, di diversa origine etnica si sostengono l’una con l’altra, condividono le responsabilità e affrontano unite la polizia.

Al di là delle proteste contro la corruzione del governo, si legge ancora su Ladynomics, la rivoluzione in Libano include anche rivendicazioni femministe; secondo la classifica del World Economic Forum il paese ha un gap di genere che lo colloca al 140esimo posto della classifica mondiale (su 149 paesi), con una performance decisamente pessima per l’empowerment politico delle donne, variabile per cui il Libano si colloca al 147esimo posto su 149. Per esempio, si legge ancora, la legge sulla nazionalità non permette alle donne libanesi di trasmettere a figli e figlie la propria nazionalità e le leggi libanesi regolarmente discriminano le donne.

Etiopia

«Dobbiamo costruire una società che rifiuta l’oppressione nei confronti delle donne». L’Etiopia ha eletto a fine ottobre la sua prima presidente, l’unica donna capo di Stato in tutta l’Africa: Sahle-Work Zewde, eletta all’unanimità in una sessione congiunta delle due Camere del Parlamento dopo le dimissioni del suo predecessore, Mulatu Teshome, al potere dal 2013. La diplomatica era rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres.

«Se qualcuno pensa che parlo molto delle donne, aspetti di sentire tutto quello che ho da dire», dice la presidente secondo quanto si legge su El Pais. «Quando non c’è pace nel paese, le madri si sentono frustrate, quindi dobbiamo lavorare per la pace per il bene delle nostre madri».

Cina

Su LetteraDonna vi segnaliamo uno speciale sulle donne kazake, “le ultime vittime della spregiudicata crociata che la Cina, da oltre un anno, combatte contro le minoranze musulmane nella provincia di Xinjiang”. Violentate, costrette ad abortire, condannate a sopportare in silenzio trattamenti disumani. Secondo quanto riportato dagli attivisti delle Nazioni Unite, più di un milione di Uiguri, Kazaki e rifugiati di numerose altre etnie sono stati reclusi in veri e propri centri di tortura nella provincia di Xinjiang. Pechino, scrive LetteraDonna, l’ha giustificata come misura necessaria per scongiurare probabili minacce di terrorismo: i fatti hanno dimostrato come non sia stata altro che una manovra studiata per ridurre drasticamente i musulmani nei propri territori. Una pulizia etnica camuffata che sta colpendo soprattutto le donne.

Nonostante siano riuscite a scongiurare il pericolo e a ritornare a casa, per molte delle vittime rimane complicato dimenticare il dolore di quegli abusi e ricominciare da zero. E le loro storie lo dimostrano, si legge ancora su LetteraDonna. Parlano soprattutto di sterilizzazioni attraverso contraccezione intrauterina e aborti forzati che, nel quadro della «politica del figlio unico», sono stati spesso usati come strumento per annientare le loro abilità riproduttive e tenere sotto controllo lo stato delle nascite. Come nel caso della 38enne Gulzira Mogdyn che, reclusa nel campo di Xinjiang solo per aver disatteso al divieto e aver installato Whatsapp sul suo cellulare, è stata costretta a rinunciare al suo quarto figlio, sottoponendosi a un’interruzione di gravidanza: «I medici hanno asportato il feto dal mio utero senza usare l’anestesia», racconta lei al Washington Post, «In quella tragedia sono morte due persone: io e il mio bambino». Ora che ha trovato il coraggio di parlare, si aspetta un risarcimento in denaro e pubbliche scuse dal governo cinese. Ma sa che non arriverà nulla di tutto questo e con quella sofferenza dovrà farci i conti fino alla fine dei suoi giorni.

In un’intervista a Business Insider citata da LetteraDonna, Sayragul Sautybay, 41enne kazaka assunta dal governo per insegnare il cinese e fare opera di propaganda nelle strutture di detenzione, ha spiegato come, al di là delle pessime condizioni igieniche, della totale violazione delle normali procedure sanitarie e dell’utilizzo delle prigioniere come cavie di misteriosi esperimenti medici, la cosa più raccapricciante era, forse, la spettacolarizzazione della violenza di gruppo. «Mi ricordo perfettamente di quando, un giorno, una ragazza di appena 20 anni è stata fatta spogliare dopo aver confessato sotto forzatura i suoi peccati davanti ad altre 200 persone», racconta Sayragul, «Poi, come se fosse quasi un’abitudine, i soldati hanno iniziato ad abusarne a turno. Tutto questo mentre controllavano la reazione di chi assisteva inerme alla scena. C’era gente che girava la testa, chiudeva gli occhi e chi, in preda alla rabbia o allo choc, ha provato a ribellarsi, è stato portato via. Probabilmente ucciso, perché non ne è più rimasta alcuna traccia».

In copertina Sahle-Work Zewde/Wikimedia

Leggi/ Ascolta anche:

Bolivia: Il presidente Morales si dimette

E se credete in un giornalismo indipendente, serio e che racconta dai posti, potete sostenerci andando su Sostienici


Continua a leggere

[There are no radio stations in the database]