La guerra in Etiopia: ultime notizie
Scritto da Laura Ghiandoni in data Dicembre 2, 2021
L’oro olimpico mezzofondista Haile Gebrselassie è sceso in campo a supporto del premier etiope Abiy Ahmed Ali per rispondere all’appello a lottare contro le forze del partito Tigray People’s Liberation Front, impegnate a riguadagnare terreno sulla via che conduce alla capitale. Come lui stanno reagendo un numero sempre più alto di cittadini etiopi. L’invito diffuso dal premier, a cui è stato attribuito il premio Nobel per la Pace nel 2019, è quello a unirsi nella lotta «nonostante le diversità di lingua, di etnia, e di provenienza» per un Etiopia unica, composta di tanti gruppi diversi.
Unirsi per opporsi all’avanzare di ideologie fomentate da gruppi politici che inneggiano alla supremazia di un’etnia sull’altra. E mentre gli attori internazionali invitano le due parti alla mediazione pacifica, a circa un anno dall’inizio del sanguinoso conflitto le notizie legate all’avanzata del gruppo tigrino sulla capitale sono ancora poche e non verificate.
Se da un lato il gruppo di dirigenza tigrina ha da poco celebrato la conquista di Debre Berhan, cittadina a 130 chilometri dalla capitale, dall’altro lato voci di corridoio legate al governo indicano una possibile vittoria delle truppe nazionali che stanno avanzando veloci: Lalibela sarebbe stata liberata, come anche Debre Sina e Debre Berhane.
Intanto nel paese i cittadini stranieri vengono rimpatriati e si aggravano le numerose crisi generate dal conflitto. In particolare nel Tigray, dove la situazione umanitaria è devastante: secondo i dati dell’Onu il 90% della popolazione vive il problema della malnutrizione e decine di migliaia di persone sono sfollate in seguito alla guerriglia e ai bombardamenti.
Ai problemi della fame e della guerra si sono aggiunte, nel corso del conflitto, le violenze delle truppe eritree e governative compiute nei primi mesi di guerra contro gli abitanti, trasformati in un vero e proprio capro espiatorio, accusato in toto di sostenere l’esercito tigrino.
Nel report di Amnesty International intitolato “I don’t know if they realized I was a person” sono raccolte numerose testimonianze di donne violentate e abusate da forze allineate con il governo. Anche in riferimento a questo tipo di crimini commessi sul territorio etiope, il 12 novembre gli Stati Uniti hanno sanzionato le forze eritree per il ruolo avuto nella guerra d’Etiopia.
Purtroppo le violenze sulle donne tigrine sono solo la punta di un iceberg delle atrocità compiute da entrambe le parti. Il report Onu pubblicato il 3 novembre scorso − nel quale sono raccolte 260 testimonianze di persone sottoposte ad abusi e violenze − inquadra con il termine giuridico di “crimini di guerra” molte delle azioni compiute sia da parte del governo, sia da parte della dirigenza tigrina.
Il governo è accusato da Human Rights Watch per la incapace gestione del conflitto, sviluppatosi in un assordante silenzio mediatico. Inoltre è imputato, dalla stessa organizzazione umanitaria, di ulteriori danni causati alla popolazione del Tigray, inflitti ostacolando l’arrivo delle derrate alimentari ai civili per evitare l’intervento delle ong, sospettate dal governo di ingerenza.
L’opposizione politica fuori e dentro l’Etiopia: la storia recente
23 agosto 2020: un uomo si arrampica su una colonna neodorica della facciata di un edificio laccato di vernice bianca con scritto il numero 17. Incitato da un gruppo di sostenitori, toglie la bandiera etiopica e ne issa un’altra, sempre gialla, rossa e verde, passatagli dalla mano di un manifestante.
Per strada la folla applaude vestita in jeans. È ciò che è avvenuto a Londra, in via Princess Gate, nel quartiere di Knightsbridge, quando i manifestanti di un partito etiope, denominato Oromo Liberation Front hanno attaccato l’ambasciata etiope nella capitale del Regno Unito per togliere la bandiera nazionale e sostituirla con quella della loro etnia. Nel video, ancora online, è interessante notare l’inerzia delle forze dell’ordine quando, a pochi minuti di distanza, verrà aggredito un impiegato dell’ambasciata.
Dell’episodio, etichettato come incidente diplomatico, si parlerà molto poco. Alcuni elementi simili alla presa di Capitol Hill verranno alla luce solo a qualche mese di distanza. Le stesse colonne bianche, gli stessi poliziotti inerti. La stessa aggressione “barbarica” avvenuta in un paese considerato civile.
E un altro punto in comune: il tam tam di odio diffuso sui social contro lo stato nazionale etiope che culmina in un’azione d’assalto. Ma non solo. Lo slogan di supremazia etnica “Oromo First”, cioè “prima l’etnia Oromo”, come “America First”, le due parole che hanno ritmato la campagna elettorale americana ultraconservatrice di Donald Trump, ma in salsa tutta africana.
Una campagna politica cavalcata dal mogul dei media, oggi in carcere, Mohammed Jawar, proprietario di Oromo Media Network, canale televisivo con sede in Minnesota. Come Mohammed Jawar, nel 2018 sono migliaia gli oppositori politici che sono stati rilasciati dopo un periodo più o meno lungo di detenzione, arresti di massa compiuti durante il regime condotto dalla dirigenza tigrina. Lo conferma il report di Human Rights Watch del 2016 “La sorveglianza in Etiopia“.
Nel report è indicato che proprio un’azienda milanese, l’Hacking Team di David Vincenzetti, offriva il software per le intercettazioni di massa della popolazione che poi portavano regolarmente alle incarcerazioni.
Alcuni dei politici, una volta scarcerati, sono tornati a lottare contro il governo centrale coinvolgendo le comunità etiopi di emigrati all’estero; si sono avvalsi della liberalizzazione dei social per incitare all’odio e alla violenza in decine di lingue differenti, creando all’interno del paese un’escalation di conflitti inter-etnici culminata con l’omicidio del cantante Hachalu Hundessa.
Secondo gli esperti, all’origine del problema ci sarebbe la divisione del paese in base all’etnia stabilita dalla Costituzione etiope del 1995, documento che allo stesso tempo garantisce agli stati della federazione un inalienabile diritto alla secessione.
Se le differenze etniche prevalessero e i gruppi di oppositori di etnia diversa si unissero in coalizioni e vincessero il conflitto, con tutta probabilità l’Etiopia si smembrerebbe e il destino degli abitanti sarebbe riposto nelle mani di una manciata di partiti che, per vincere, hanno fatto della supremazia etnica la loro priorità in agenda.
Dall’inizio alla fine del conflitto: il ruolo dell’esercito
Per capire il conflitto etiope è necessario tornare su alcuni dettagli che non hanno avuto adeguato spazio nel dibattito internazionale.
È il 4 novembre 2020. Scoppia la guerra tra Etiopia e Tigray. Mentre il mondo punta il dito contro il primo ministro Abiy Ahmed, uno dei principali dirigenti del Tigray People’s Liberation Front, Sekoture Getachew, ammette davanti alle telecamere di un noto canale televisivo etiope la scelta dell’esercito tigrino di compiere un “attacco preventivo” e, quindi, aggredire per primo il governo nazionale all’interno del comando militare North Command, colpendo con una strage premeditata i soldati governativi a riposo.
Lo scopo dell’azione, secondo le parole del dirigente, è quello di ottenere una risposta di tipo bellico: in parole semplici, ottenere la guerra.
In una lettera a The Financial Times l’ambasciatore etiope in Inghilterra, Fisseha Adugna, invita la testata a evitare di diffondere false informazioni e conferma la rivendicazione dell’inizio del conflitto da parte del Tplf.
Solo poche settimane dopo, il 30 novembre 2020, Abiy Ahmed in un discorso per il Parlamento etiope, spiega ai parlamentari etiopi i retroscena del conflitto. Nel video del discorso, tradotto in inglese, si è soffermato sulle reali capacità dell’esercito nazionale e sul perché la vittoria in una guerra contro i tigrini, ben organizzati e ben armati, sarebbe stato un risultato difficile da ottenere.
Primo, perché l’esercito nazionale era stato preparato con lo scopo di difendere l’etnia tigrina, storicamente elitaria. Secondo, perché riuscire a formare in poco tempo un esercito patriottico, aumentando il numero dei soldati filo governativi di tutte le etnie, rappresentava una sfida impossibile da raccogliere nel breve periodo.
Quanto detto spiegherebbe ciò che è avvenuto nel corso del conflitto: l’accettazione del premier etiope della proposta − che sia stata implicita o esplicita − del premier eritreo Isaias Afeworki di partecipare con le proprie milizie. Esercito che si è scontrato con le forze tigrine sul suolo etiope e che ha condotto, nel marzo 2021, al dramma delle donne tigrine violentate da parte di soldati eritrei.
Da qui l’appello del premier rivolto ai cittadini per imbracciare le armi e sacrificarsi per la patria nel caso di un attacco ad Addis Abeba. Una strategia militare volta a rispondere alle tipiche azioni di guerriglia dell’esercito tigrino, alle quali la storia ha dimostrato che non è sufficiente rispondere con un esercito.
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Opinioni dei Lettori
I commenti sono chiusi.
Pierpaolo Loffreda On Dicembre 2, 2021 at 1:45 pm
Brava Laura, un bel lavoro, corretto e attendibile.