Beirut, una città ferita

Scritto da in data Agosto 7, 2020

BEIRUT – Vetrine divelte, specchi infranti, macchine implose come se una gigantesca mano avesse schiacciato una parte della città. Un velato odore di polvere, un caldo soffocante che impregna le strade ricoperte di macerie, di fili elettrici che pendolano, di vetri ovunque. Di palazzi sventrati come se fossero di cartone. Sgomento è quello che si legge negli occhi della gente. Rabbia e dolore. Di chi si avvicina al porto per la prima volta perché non ha avuto il coraggio di venire prima e vedere un pezzo della propria città distrutta, di chi sta raccogliendo le macerie dalla strada e della propria vita armato solo di una scopa e di una paletta, di chi da tre giorni presidia la propria casa seduto davanti all’entrata sventrata per paura che arrivino i ladri. E di chi non sa dove dormire, dove andare, di chi ancora trema per la paura che ha preso. Di chi da tre giorni lavora senza sosta per scavare tra le macerie alla ricerca di superstiti se si è fortunati, o di cadaveri da seppellire e di chi cura i malati nonostante non abbia ancora cancellato lo spavento che ha preso. Di chi ha perso tutto quel poco che aveva e di chi non si capacita che in Libano potesse andare ancora peggio.

Un quartiere distrutto

Eppure oggi in una delle zone più martoriate della città, Gemmayzeh, centinaia di ragazzi sotto un sole cocente si davano da fare insieme ad aziende private, normali cittadini, società civile, per portare il proprio contributo. Studenti, confessioni religiose, scout, il movimento della protesta, tutti insieme a spazzare, ad aiutare la gente più anziana a prendere qualche cosa di valore dalle loro case esposte come una ferita infetta.

Una vecchietta viene sollevata su una sedia e portata fino al quinto piano per prendere le sue medicine, qualche soldo, la biancheria intima e poi riportata giù a guardare dal basso la sua casa distrutta e la sua vecchiaia sconvolta. Non bastava il coronavirus che negli ultimi giorni aveva avuto un’impennata di casi, non bastava la crisi economica che da mesi attanaglia la gente, non bastavano le tensioni politiche che avvelenano e distruggono la vita di ogni giorno, perché mai come in questo posto è tangibile lo scollamento tra un governo ritenuto corrotto e la gente che non ne può più.
I libanesi hanno fame. Hanno fame di quel cibo che non possono comprare perché l’inflazione ha raggiunto l’80%, e la loro moneta vale pressoché nulla. Hanno fame di giustizia perché perfino un popolo così capace di sopravvivere, ha un limite che l’esplosione sembra avere scarnificato. Fame di una boccata d’aria che si è trasformata in una nube tossica che avvelena ancora una volta le loro esistenze. Ci sono ancora tante domande senza risposta – come sia possibile che del materiale pericoloso (2.700 tonnellate di nitrato di ammonio) sia rimasto per anni conservato in un silos. Come si è innescata l’esplosione: qualcuno da dentro con un innesco? Qualcuno da sopra con un razzo? Le teorie si sprecano perché non c’è chiarezza, nonostante le promesse del premier di fare luce, di fare pagare a chi ha permesso che questo accadesse. Ma per i libanesi è la solita conferma che il potere è marcio, che la corruzione regna sovrana, che del popolo non gliene importa niente. Molti hanno pensato ad un terremoto, altri a un bombardamento israeliano, ma in realtà non si sa nulla e non sapere a volte è peggio di una scomoda verità.

I volontari

“Accompagnamo dentro gli appartamenti chi ha bisogno di entrare”, ci spiega Rita Mathieu, proprietaria di Khoury Home, una delle principali aziende di elettrodomestici del paese. È qui con tutti i suoi dipendenti a dare una mano. Qualcuno porge un panino, qualcun altro una bottiglia d’acqua, qualcun altro ancora spazza, altri raccolgono macerie, armati di mascherine leggere e scarpe da ginnastica. Non ci sono elmetti di protezione, in un posto dove tutto è pericolante. Ma sono solo volontari, gente che si è presa la briga di aiutare, a ognuno il proprio pezzetto di strada.

300 mila gli sfollati nel giro di due minuti: la potenza di una bomba, le conseguenze di un terremoto; molti hanno raggiunto i parenti in altre zone, altri sono stati ospitati in hotel che hanno messo a disposizione delle stanze, altri hanno trovato rifugi, la maggior parte è impietrita da quello che li aspetta. Intanto la polizia bivacca, stanno in gruppetti negli angoli delle strade per controllare che non ci siano saccheggi, si suppone, ma non muovono un dito per aiutare. Altri sono in furgoni che girano per la città, sembra che vaghino senza meta. E questo irrita molti. “Dove sta il governo? Perché non mandano camion e ruspe? Perché qui ci sono privati cittadini a rimettere in sesto la città? Siamo soli. Loro (la leadership) aspetta solo che arrivino gli aiuti per potersi fare delle foto”, mormorano nelle strade.
Alla Peer Tavern, Jihad Saad si massaggia la gamba mentre cerca di capire i danni al suo ristorante. Zoppica vistosamente tra i tavoli sottosopra, ma rassicura, “sto bene, la mia compagna invece è in ospedale, era qui vicino a me, quando tutto è esploso”. Non riesce a dire cosa gli riserva il futuro. “Il danno è troppo esteso per poter sistemare, qui ho chiuso, non so che farò, non ho niente altro. Questa esplosione ha spezzato le nostre vite. Non sono in grado di dirti cosa provo, è come se il cuore avesse smesso di battere”.


Non troppo lontano Fuad Abi Jaber, 53 anni, se ne sta seduto nel centro dell’entrata della sua officina di meccanica, o meglio quella che era l’entrata e ora è solo lo scheletro quadrato di un edificio bucato nel buio. “Sono qui da tre giorni, faccio la guardia perché ci sono le macchine dei clienti, aspetto che arrivi chi mi deve riparare la porta e fino ad allora da qua non mi muovo”. Inchiodato su una sedia a pensare e soffrire. “Dov’è la municipalità di Beirut? Perché non viene nessuno? È pieno di gente, ma siamo noi, i libanesi, non loro, quelli che si riempiranno le tasche con i soldi che verranno. Dillo all’estero che non devono dare i soldi al governo al libanese, che mandino ingegneri, che vadano per le case, che valutino i danni e diano i soldi a chi ne ha bisogno”. Sei dei suoi uomini sono rimasti feriti, due sono in ospedale, stavano molto male, subito dopo l’esplosione ha cercato di portarli in macchina al pronto soccorso, ma le strade erano intasate e per tre ore non sono riusciti a muoversi, poi hanno preso delle moto, li hanno caricati come potevano e li hanno portati.

Sotto una tenda delle ragazze distribuiscono panini. “Siamo cristiane, questo si fa nel momento del bisogno, ci si dimentica delle proprie differenze, dei propri litigi, ci si rimbocca le maniche e si aiuta”, dice Eliana Basil 27 anni. “Siamo un popolo intelligente eppure siamo in balia di chi ci governa, non se ne può più”. Proseguendo nei meandri della catastrofe, Jad Abou Karam dà una mano pulendo la strada, è un famoso commediante: “Sono qui per dare un po’ di speranza, le cose devono cambiare, abbiamo bisogno di giustizia”.

Giustizia in un paese dove un presidente si dice contrario a un’indagine internazionale. Che rifiuta aiuti se non passano attraverso il governo, che non scende in piazza perché le piazze sono occupate dai ragazzi che da mesi manifestano contro tutti loro, quella brigata di politici che domina ma non comanda. Che decide ma non ipnotizza più nessuno se non i propri discepoli. Nasrallah, il leader degli Hezbollah, il partito più forte, legato all’Iran, ha parlato in tv negando che ci fosse un deposito di armi loro, che avrebbe voluto parlare degli israeliani ma che ora si può aspettare.

Manifestazione e soccorsi

Domani è prevista una grande manifestazione, hanno chiesto alla gente di venire da tutto il paese, e nessuno può dire di non sapere cosa sta succedendo perché i 5.000 feriti sono stati mandati ovunque.
In giro si vedono i soccorsi internazionali, tedeschi, russi, italiani, francesi, c’è chi monta ospedali e chi distribuisce medicine, chi ancora scava nelle macerie con i propri vigili del fuoco.
L’ospedale di Roum, uno dei principali di Beirut (ci lavoravano 1.800 persone tra cui 250 medici) è completamente fuori uso; il responsabile del personale medico, Eid Azar ci accompagna per le sale devastante, tutti i 350 pazienti sono stati evacuati, 19 erano malati di covid-19, uno è morto, 15 erano intubati. “Sembrava una sfilata di zombi, vieni a vedere – dice mostrandoci le scale al buio perché nella zona non c’è elettricità – la gente scendeva da qui come imbambolata, li abbiamo trasferiti ovunque, e i feriti che arrivavano dovevamo mandarli via, abbiamo stabilizzato quelli che potevamo all’esterno, poi una sfilata di autoambulanze è partita verso altri ospedali. Quattro delle nostre infermiere sono morte, una per un trauma cranico è morta proprio qui all’entrata, 61 tirocinanti sono rimasti feriti”.

Nel quartiere di Hambra c’è la sede di Medici Senza Frontiere, lavorano da anni in Libano impegnati in progetti per la salute dei profughi, delle persone più vulnerabili, ora in particolare sul coronavirus. “Dei libanesi si può dire tutto ma non che non siano resilienti”, ci dice Aria Danika, vice capo della missione di MSF. Ora i loro sforzi si sono concentrati a Beirut, nonostante abbiano lavori in corso in tutto il paese. Si insinuano nei vuoti della macchina dei soccorsi per capire cosa manca. “Sta arrivando di tutto, ma bisogna anche capire cosa serve. La parola “vulnerabili” viene pronunciata spesso, tutte quelle persone, dagli anziani ai bambini (120 scuole sono inagibili) che hanno più bisogno di aiuto. Si preoccupano del trauma, della salute mentale della gente e anche di qualcosa a cui molti ancora non hanno pensato. “Bisogna occuparsi anche della qualità dell’aria che stiamo respirando, delle conseguenze a lungo termine perché non sappiamo cosa ci fosse in molti degli edifici crollati, alle sostanze chimiche al porto, penso alle persone con problemi respiratori, agli asmatici, agli anziani”, spiega Danika “in altri contesti sarebbe già stato avviato uno studio dell’aria”. E poi si preoccupano per il coronavirus: “L’esplosione ci ha travolto tutti, la gente si è riversata per le strade, ma il virus non è sparito anzi, i casi erano aumentati nei giorni precedenti”. E chi fugge in preda al panico non indossa mascherine o prende le distanze.

E mentre Beirut raccoglie le macerie e i pezzi della propria vita, molte domande restano senza risposta, le suppliche della gente al presidente Macron che ha passeggiato ieri come un eroe, non sono passate inosservate, e cresce la voce internazionale per delle risposte. Ma la questione va ben oltre la politica, la giustizia, la necessità che qualcuno chieda scusa: si tratta di quello che i cittadini di di Beirut sentono di avere perso con l’onda d’urto dell’esplosione che ha spazzato via tutto, anche la speranza.

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