Boom delle imprese immigrate in Italia

Scritto da in data Marzo 12, 2024

Pubblicato dal 2014 nella prospettiva di riconoscere, promuovere e valorizzare il portato specifico (reale e potenziale) dell’imprenditorialità immigrata, il Rapporto Immigrazione e Imprenditoria, realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS in collaborazione con CNA, offre una panoramica dettagliata sull’iniziativa imprenditoriale dei cittadini immigrati in Italia e in Europa, utilizzando dati dettagliati e statistiche affidabili a livello nazionale, regionale e locale.

Intervista a Luca Di Sciullo, presidente IDOS

Il rapporto

Le imprese immigrate in Europa: “ponti transnazionali” per la crescita economica e la comprensione interculturale

L’Unione europea, con 37,5 milioni di presenze, si conferma come una destinazione privilegiata per i migranti internazionali, che portano con sé una vasta gamma di talenti, competenze ed aspirazioni imprenditoriali. Le imprese gestite dagli stranieri non solo contribuiscono in misura notevole alla crescita economica dell’Ue, peraltro esercitando “per induzione” un significativo impatto sulla generazione di ulteriori imprese e opportunità occupazionali, ma arricchiscono anche il tessuto sociale e culturale del continente, fungendo da “ponti transnazionali” tra diverse comunità e promuovendo la comprensione interculturale.

Tuttavia, nonostante il potenziale imprenditoriale presente nella variegata popolazione migrante dell’Ue, l’assenza di misure di sostegno mirate ed efficaci e il conseguente perdurare di ostacoli di natura giuridica, culturale e linguistica rendono complicato il pieno sviluppo e l’adeguata valorizzazione dell’imprenditorialità immigrata e il pieno sfruttamento del ricco bacino interno di capacità imprenditoriali. Le sfide amministrative e burocratiche (dall’acquisizione del visto d’ingresso e/o del permesso di soggiorno fino all’accesso ai canali di credito) si intrecciano infatti con le sfide socio-culturali, come la mancanza di padronanza della lingua del Paese ospitante, compromettendo la piena realizzazione dell’imprenditorialità immigrata e incidendo sulla sostenibilità e sul potenziale di crescita delle relative attività economiche.

I piani disattesi

La stessa attenzione dei policymaker, culminata a livello comunitario nel 2012 con l’adozione del Piano d’Azione “Imprenditorialità 2020”, noto anche come “Rilanciare lo spirito imprenditoriale in Europa”, si è affievolita e – superata la fatidica data del 2020 – non si è avuto più alcun ulteriore sviluppo programmatico.

La limitata attenzione verso il potenziale dell’imprenditorialità immigrata si rispecchia nella carenza di dati accurati a livello comunitario. La mancanza di una standardizzazione nelle regolamentazioni e definizioni tra gli Stati membri rende difficile ottenere una visione chiara delle dinamiche dell’imprenditorialità di origine straniera, che pure viene censita normalmente dai registri di impresa nazionali. Gli studiosi spesso si affidano ai dati Eurostat sui lavoratori autonomi tratti dall’indagine sulla forza lavoro (Lfs), una survey campionaria trimestrale che a livello comunitario fornisce stime sulle principali caratteristiche dell’intero mercato del lavoro europeo.

I numeri

Negli ultimi 21 anni, cioè dal 2002 fino al 2022, la propensione all’imprenditorialità resta prevalente tra i cittadini autoctoni, ma si è notato un aumento significativo degli imprenditori stranieri, nonostante la crisi del 2008 e la pandemia del 2020-2021.

Mentre il numero totale di lavoratori autonomi nativi è diminuito da 25,3 a 23,9 milioni, quello degli imprenditori stranieri è quasi triplicato nel medesimo periodo, passando da 675mila a 1,862 milioni (in parallelo la loro incidenza sul totale è passata dal 2,6% al 7,2%). Tra i lavoratori autonomi stranieri, i non comunitari costituiscono il 56,7% del totale (1.054.600), mentre quelli comunitari – che pure beneficiano di percorsi di realizzazione apparentemente agevolati in quanto non soggetti alle procedure burocratico-amministrative che gravano invece sui non comunitari – sono il 43,3% (805.000).

Nel novero dei Paesi Ue, la Germania si posiziona al vertice con 436.200 lavoratori autonomi stranieri, seguita da Spagna (394.100), Italia (287.200) e Francia (259.600). Insieme, questi quattro Paesi raggiungono un peso particolarmente significativo, costituendo oltre il 75% del totale dell’imprenditorialità straniera attiva nell’Ue.

Tra tutti i lavoratori stranieri nell’Ue, gli imprenditori incidono per il 10,9% (a fronte del 13,1% rilevato tra gli occupati complessivi e del 13,3% tra i soli nativi). La maggior parte degli Stati membri riporta percentuali di lavoratori autonomi superiori al 10,0% dell’intera forza lavoro, indicando un ampio ricorso a questa forma di occupazione in Europa (12,3% per l’Italia).

Caratteristiche

Tra le caratteristiche salienti degli imprenditori stranieri dell’Ue si osserva che:

– quasi un terzo ha impiegato almeno un dipendente nel corso del 2022 (31,5%). Questa percentuale si allinea a quella relativa ai soli nativi, pari al 31,7% (l’Italia si colloca sotto la media europea con il 27,1%);
– essi hanno generalmente un profilo più giovane rispetto agli omologhi nativi. In Ue, il 69,8% dei lavoratori autonomi stranieri – il 72,0% considerando solo quelli provenienti da Paesi terzi – ha meno di 50 anni, rispetto al 57,7% dei nativi. In Italia, il 75,8% dei lavoratori autonomi stranieri ha meno di 50 anni, contro il 55,4% dei nativi;
– nonostante siano numericamente minoritarie, le donne rappresentano il 32,8% del totale a livello Ue, rispetto al 33,6% tra le native (in Italia, il 28,5% delle imprenditrici è straniero).

L’analisi di questi dati evidenzia non solo la diversità nelle dinamiche imprenditoriali tra gli Stati membri dell’Unione europea, ma fornisce anche spunti di riflessione sulla varietà di approcci economici e culturali presenti al suo interno.

Il caso italiano

In base all’Indagine sulla forza lavoro (Lfs), l’Italia si distingue come uno dei principali protagonisti europei nel contesto dell’imprenditorialità, con una numerosità di quasi 4,4 milioni di lavoratori autonomi, di cui 287.200 stranieri.

Questi numeri posizionano il nostro Paese in prima posizione in Europa per quanto riguarda l’iniziativa imprenditoriale e al terzo per numero di lavoratori autonomi di origine straniera. In entrambi i casi, sono pari a un sesto del rispettivo gruppo di riferimento.

Confermando i dati derivanti dai Registri delle imprese elaborati da Infocamere, emerge una vivace dinamicità nella componente imprenditoriale immigrata, in netto contrasto con il panorama complessivo. Negli anni più recenti, mentre l’iniziativa imprenditoriale italiana ha mostrato una stabilità o un modesto declino, si è notato un notevole incremento delle attività gestite da lavoratori e lavoratrici straniere in Italia, rispecchiando le mutazioni del tessuto imprenditoriale nazionale e l’inserimento occupazionale degli immigrati. Tra il 2011 e il 2022, le imprese gestite da immigrati hanno registrato un aumento del 42,7%, mentre quelle condotte da italiani hanno subito una diminuzione del 5,0%. Anche nel 2022, sebbene con un rallentamento rispetto al passato, si è osservato un aumento annuo delle attività imprenditoriali dei migranti (+0,8%), mentre il resto del panorama imprenditoriale nazionale ha sperimentato una flessione (-1,0%). Alla fine del 2022, il numero di imprese gestite da migranti si è attestato a 647.797, rappresentando il 10,8% del totale nazionale, a fronte del modesto 7,4% del 2011.

Sul territorio

L’imprenditoria immigrata è presente su tutto il territorio italiano, dalle grandi città alle piccole comunità, permeando l’economia in modo trasversale. Sebbene le imprese gestite da immigrati siano prevalentemente concentrate nelle regioni centro-settentrionali (77,3%, di cui 30,8% nel Nord-Ovest, 20,9% nel Nord-Est e 13,1% nel Centro), esse sono altresì presenti nel Mezzogiorno (22,7%: 16,5% al Sud e 6,2% nelle Isole).

Lombardia (19,1%, 124mila) e Lazio (12,4%, 81mila), con le loro Città metropolitane di Roma (67mila, 10,4%) e Milano (61mila, 9,4%), principali poli dell’immigrazione del Paese, si distinguono per accoglierne il numero più elevato. Seguono, a livello regionale, Toscana (61mila, 9,4%), Emilia Romagna (60mila, 9,3%), Veneto (53mila, 8,2%), Piemonte (50mila, 7,8%) e Campania (51mila, 7,8%), unica regione del Mezzogiorno in cui le imprese a conduzione immigrata superano la soglia delle 50mila unità. Liguria (15,2%), Toscana (15,1%) ed Emilia Romagna (13,5%) costituiscono invece i territori in cui l’incidenza della componente immigrata sul tessuto di impresa complessivo raggiunge livelli massimi, con il supporto di aree provinciali come Prato (32,0%), Trieste (19,5%), Firenze (17,5%), Imperia (17,5%) e Reggio Emilia (17,3%).

Predominano forme imprenditoriali più semplici e poco strutturate, come le ditte individuali, che costituiscono quasi tre quarti di tutte le imprese gestite da immigrati (480mila, pari al 74,1%). Tale tendenza contrasta nettamente con la situazione degli imprenditori autoctoni, dove le ditte individuali rappresentano meno della metà del totale (48,0%). La fragilità intrinseca di queste imprese le ha rese particolarmente sensibili agli impatti della pandemia, con un rallentamento del ritmo di crescita annuo nel 2021 (+0,6%) e addirittura una contrazione nel 2022 (-1,0%).

In linea con il contesto occupazionale generale, anche nel panorama imprenditoriale emerge una preponderante concentrazione delle persone di origine immigrata in settori e attività svantaggiate e poco remunerative. Questo conferma che la scelta imprenditoriale è spesso perseguita come una strategia di auto-impiego e di potenziale ascesa socio-economica, mirante a migliorare le condizioni lavorative e a emanciparsi dalle rigide logiche di stratificazione che modellano l’inserimento alle dipendenze. Tuttavia, gli esiti restano intrinsecamente legati a dinamiche simili a quelle a cui cercano di sottrarsi.

Si osserva, tuttavia, un progressivo ridimensionamento del forte protagonismo della microimprenditorialità (scesa dall’80,6% del totale nel 2011 al 74,1% nel 2022), congiuntamente a un consolidamento della base imprenditoriale immigrata. Le società di capitale, ad esempio, rappresentano ormai quasi un quinto (18,4%, pari a 119mila) di tutte le attività autonome dei migranti registrate presso le Camere di Commercio, il doppio rispetto al 2011 (9,6%).

I settori

Il panorama dell’imprenditoria immigrata in Italia si caratterizza inoltre per una evidente concentrazione settoriale, con il commercio (31,8%) e l’edilizia (23,9%) che insieme raccolgono oltre la metà delle iniziative autonomo-imprenditoriali dei migranti. Del resto, già negli anni precedenti la pandemia, si è osservata una costante crescita di attività nell’area dei servizi, nel cui ambito alla fine del 2022 opera circa il 59,0% delle imprese immigrate. In particolare, le attività di alloggio e ristorazione, noleggio, agenzie di viaggio, servizi alle imprese e servizi alla persona sono tra quelle che registrano i ritmi di crescita più elevati insieme alle costruzioni, che negli ultimi tre anni sono state sostenute dagli incentivi governativi.

Le origini

L’82,0% dei titolari di imprese individuali è di origine non comunitaria. Poche nazionalità hanno un marcato protagonismo nella gestione di imprese come i marocchini (12,4%, 63mila), i romeni (53mila, 10,8%) e i cinesi (52mila, 10,7%), che rappresentano oltre un terzo di tutti i titolari di imprese individuali nati all’estero. Ogni gruppo si distingue per specifiche traiettorie di inserimento che evidenziano peculiari tendenze alla concentrazione settoriale, anche dette “specializzazioni etniche” (in realtà più indotte dal contesto esterno che da propensioni naturali). In particolare, i marocchini (66,0%) e i bangladesi (63,5%) si concentrano nel commercio, gli albanesi (67,1%) e i romeni (56,5%) nell’edilizia; i cinesi, infine, hanno una maggiore distribuzione settoriale, ma sono fortemente concentrati nel commercio (34,9%) e nella manifattura (33,0%), oltre che nell’ambito ristorativo-alberghiero (14,4%).

In parallelo alla tendenza generale, tutti i gruppi nazionali mostrano una progressiva attenuazione del predominio dei settori economici tradizionali, segnalando una spinta verso la diversificazione legata all’evoluzione del mercato e all’emergere di nuovi soggetti imprenditoriali, tra cui spiccano le donne, che, pur coprendo ancora una quota minoritaria dell’imprenditoria a gestione immigrata (159.198, pari al 24,6% del totale), ne rappresentano una componente emergente e in evoluzione.

I servizi rappresentano di gran lunga il principale settore di attività delle imprese immigrate gestite da donne, contandone 113.611, ossia il 71,4% del totale, ben 12 punti percentuali in più rispetto a tutte le aziende guidate da persone di origine straniera (59,0%). Si tratta di attività che, non diversamente dal mercato del lavoro dipendente, rimandano alla sfera della riproduzione sociale (inclusa la produzione alimentare in agricoltura), alla cura, all’assistenza alle persone, ai servizi domestici o di pulizia e così via.

Conclusioni e raccomandazioni

Le conclusioni tratte dall’ultima edizione del Rapporto Immigrazione e Imprenditoria, arricchite dall’esperienza maturata in un decennio di studio sul campo, forniscono importanti indicazioni per una revisione delle attuali politiche, particolarmente rilevanti in contesti come l’Italia. Qui il declino della natalità e l’emigrazione dei giovani qualificati stanno delineando sfide occupazionali e demografiche di portata considerevole.

In Italia si è radicato un sesto dei lavoratori autonomi stranieri operanti nell’Ue, dando vita a un proliferare di imprese di dimensioni contenute, le quali, in linea con il profilo socio-economico prevalente dei lavoratori stranieri nel Paese, risultano le più esposte alle criticità del contesto attuale, in virtù della loro natura più fragile e vulnerabile. Lo stesso panorama settoriale dell’imprenditorialità immigrata rivela una marcata concentrazione nei comparti meno specializzati e meno remunerativi dei servizi, che, nonostante ciò, rappresentano il 59,0% delle attività a guida immigrata.

Il quadro complessivo evidenzia, quindi, una combinazione di esperienze e fattori eterogenei, che convergono principalmente su due aspetti apparentemente contrastanti: un notevole dinamismo e una costante crescita da un lato, una marcata precarietà e fragilità strutturale dall’altro. Questi due tratti, pur in un contesto di evoluzione continua e in molti aspetti positiva, rimangono ancora fondamentali per la comprensione del fenomeno.

Partendo da questa articolata analisi di contesto, il Rapporto suggerisce tre linee guida fondamentali per massimizzare il potenziale imprenditoriale degli immigrati:

1. Sostenere lo sviluppo delle imprese immigrate, capitalizzando la loro vocazione transnazionale per stimolare l’economia italiana e le relazioni con i Paesi di origine degli imprenditori. Questa raccomandazione si basa sul concetto di “globalizzazione dal basso”, in cui le imprese gestite da immigrati diventano attori privilegiati nell’economia bilaterale e transnazionale, contribuendo al cosviluppo sia dell’Italia che dei Paesi d’origine degli imprenditori.

2. Superare gli ostacoli giuridici, burocratici e socio-economici che scoraggiano la crescita delle imprese straniere in Italia, favorendo invece una crescita endogena delle imprese locali. Le imprese immigrate in Italia spesso nascono da un’iniziativa “dal basso”, da parte di immigrati che si sono stabiliti nel Paese da un certo periodo e che decidono di avviare un’attività propria, assumendosi il rischio d’impresa.

3. Valorizzare il potenziale innovativo delle imprese immigrate, soprattutto quelle guidate da giovani di nuova generazione, e promuovere un maggiore sostegno da parte del sistema produttivo italiano per migliorare la competitività sui mercati internazionali. Questa raccomandazione sottolinea l’importanza delle startup innovative gestite da giovani immigrati, che possono portare avanti progetti innovativi e tecnologicamente avanzati, contribuendo così alla crescita economica e alla competitività dell’Italia sui mercati globali.

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