Campari: un campione del made in Italy

Scritto da in data Aprile 12, 2021

L’economia non riguarda soltanto le grandi teorie, le grandi strutture, i grandi aggregati, gli intrecci con i fenomeni sociali e le decisioni politiche, quella che viene chiamata appunto macroeconomia. C’è anche una microeconomia fatta di aziende che nascono, si sviluppano, arrivano al successo oppure muoiono. E di una microstoria parliamo oggi, la storia di un prodotto e di un’azienda che, grazie a quel prodotto, è diventata un vero e proprio colosso. La storia è quella della Campari, una delle più importanti multinazionali del settore del beverage, cioè delle bevande, in prevalenza alcoliche.

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Campari: un colosso del beverage

Nel 2019 la Campari ha raggiunto un fatturato di 1 miliardo e 842,5 milioni di euro, con un utile netto di 308 milioni di euro, 4.000 dipendenti, una presenza ramificata in gran parte dei paesi del mondo e quasi una cinquantina di marchi di prodotti diversi, alcuni dei quali di grande storia e prestigio. Oltre ai classici prodotti Campari nel corso degli anni l’azienda ha acquisito, solo per citare alcuni dei nomi più famosi, Cynar, Crodino, Aperol, Zedda Piras, Amaro Averna, Braulio, Asti Cinzano, Riccadonna, Glen Grant, Grand Marnier.

Il Presidente del gruppo Campari, Luca Garavoglia, risulta nella classifica dei dieci uomini più ricchi d’Italia. La sua famiglia guida l’azienda dagli anni Ottanta, quando i suoi genitori l’acquisirono dagli eredi Campari. Il suo nome è poco conosciuto, si tratta di una di quelle famiglie della solida borghesia lombarda che si tiene lontana dalle cronache e dalla mondanità, concentrata nel lavoro e nella gestione dell’azienda che sono riusciti a portare a livelli considerevoli di successo. La Campari oggi è la sesta più grande azienda nel suo settore a livello mondiale ed è indiscutibilmente un campione del “made in Italy”. Il rosso Campari è conosciuto in tutto il mondo, le sue iconiche pubblicità hanno fatto scuola, i suoi prodotti sono venduti e consumati in tutto il pianeta.

Un po’ di storia

Ma la storia di questa azienda è lunga e avvincente. Tra l’altro, per chi fosse interessato, a nord di Milano nel Comune di Sesto San Giovanni, dove nel 1904 fu costruito il primo grande stabilimento della Campari, è stato aperto, a ridosso di quella storica sede, un museo aziendale dove si trovano cimeli e testimonianze della lunga storia di questa impresa. Vale la pena andare a vederlo, appena sarà possibile una volta superata la pandemia, perché è uno dei più interessanti musei aziendali esistenti in Italia.

Ma partiamo dall’inizio. Il capostipite Gaspare Campari, nacque nel 1828 in un piccolo paesino, Cassolnovo, al confine tra la Lomellina Pavese e la provincia di Novara, ultimo di dieci figli. Da giovanissimo iniziò a lavorare a Torino come garzone del Caffè Liquoreria Bass, all’epoca uno dei locali più alla moda di Torino, ritrovo della buona società. Essendo un tipo sveglio e molto dedito al lavoro fece carriera e passò a lavorare al Cambio, un caffè ristorante in piazza Carignano, altro storico locale torinese, frequentato tra gli altri da personaggi come Cavour e il generale Lamarmora.

Nel 1856 muoiono due figlie ancora piccolissime e nel 1859 scompare anche la prima moglie Maddalena. Colpito negli affetti più cari Gaspare decide di cambiare vita e prende la decisione di trasferirsi a Milano, una città all’epoca in pieno sviluppo, in un paese che con l’unificazione stava cambiando e si accingeva a diventare una delle grandi nazioni europee. Nel 1862 in piazza del Duomo, all’angolo con quella che è oggi la Galleria, Gaspare apre un suo locale. Nei primi anni milanesi, lavorando con i suoi alambicchi il liquorista, Campari sperimentava e cercava sempre nuovi elisir: amari, vermouth, un’infusione di assenzio ed erbe aromatiche nel vino bianco, fino all’invenzione di quello che chiamò Bitter a uso d’Olanda che divenne successivamente il Bitter Campari e che gli diede il successo e la ricchezza.

Lungimirante fu l’idea di aprire il suo locale all’angolo tra piazza Duomo e quella che da lì a qualche anno sarebbe diventata la Galleria Vittorio Emanuele II, in onore del re che aveva unificato l’Italia. Negli anni precedenti per dare maggior ariosità alla piazza erano stati abbattuti diversi edifici e nel 1865 cominciò la costruzione di quella nuova Galleria, avveniristica nella sua costruzione tutta in ferro, che sarebbe diventata il “salotto” della città. Nel frattempo Gaspare si risposò e la seconda moglie cominciò a lavorare con lui nel Caffè Campari al piano strada, mentre al piano superiore avevano l’abitazione e nei sotterranei c’era il laboratorio dove Gaspare continuava le sue ricerche e i suoi esperimenti di sempre con nuove combinazioni di liquori. Nel giro di pochi anni accanto al caffè fu aperto un ristorante.

In quegli anni nel Caffè Campari si vedevano personaggi che faranno la storia di Milano e non solo, come l’editore musicale Ricordi o Attilio Manzoni, fondatore della prima agenzia di pubblicità italiana, l’industriale Giovan Battista Pirelli, intellettuali come Emilio Praga, Giuseppe Giacosa, Arrigo Boito, pittori come Segantini, rivoluzionari bizzarri come Felice Cavallotti. Per Milano quegli anni sono un periodo di grande fermento economico, culturale e civile. Nel 1876 nasce un nuovo quotidiano destinato a grande fortuna, Il Corriere della Sera, due ex venditori ambulanti, i fratelli Bocconi, fondano a fianco del Duomo i nuovi grandi magazzini chiamati Aux Villes d’Italie, che saranno più avanti ribattezzati da D’annunzio La Rinascente. In Piazza del Duomo arriva l’illuminazione elettrica.

L’esposizione industriale del 1881

Nel 1881 Gaspare Campari partecipa all’Esposizione Industriale Italiana, una sorta di fiera campionaria ante litteram, nella quale verrà premiato. I suoi prodotti conoscono un crescente successo a cominciare da quel Bitter a uso d’Olanda ormai ribattezzato semplicemente Bitter Campari, sino al Fernet Campari, alla Doppia Crema al Mandarino, alla Doppia Crema al Cacao e alla Vaniglia, fino all’Acqua Regina, un liquore dolce e poco alcolico dedicato alla Regina d’Italia.

La ricetta del Bitter era segreta, più nei dosaggi che non negli ingredienti: la sua peculiarità stava nella giusta proporzione tra quel composto di erbe, frutti e radici che dovevano essere lasciate a macerare in acqua distillata e alcol che poi dovevano essere miscelate con sciroppo di zucchero colorato con il rosso della cocciniglia. Il colore rosso del Bitter Campari derivava infatti da un colorante naturale che viene anche utilizzato in medicina come mezzo di contrasto per gli esami interni. Si produce grazie all’essicazione del dattilopio, una cocciniglia, un piccolo insetto parassita di alcuni tipi di piante che si trova in America Latina. Il colore che si ricava viene anche chiamato “rosso Montezuma” perché era utilizzato dagli Aztechi sia per colorare gli abiti, sia per pitturarsi il viso e il corpo. Fu “scoperto” da Cortes, il conquistatore spagnolo del Messico quando vide che, tra i doni che venivano portati all’imperatore Montezuma, oltre all’oro e all’argento, c’erano anche sacchi di cocciniglie essiccate. La Campari ha sempre utilizzato questo colorante naturale anche se più costoso di quelli sintetici, in quanto fa parte della ricetta originale di Gaspare Campari. Il segreto di quel Bitter non lo conosceva nessuno dei dipendenti ma soltanto la moglie Letizia, oltre al suo inventore Gaspare.

Ma nel 1882 a soli 54 anni Gaspare improvvisamente muore e sarà la moglie a doversi fare carico di mandare avanti l’attività da sola in attesa che i 5 figli, tutti minorenni tranne Antonietta, fossero in grado di darle una mano. Nel 1886 la Campari espose per la prima volta all’estero, all’Exposicion Universal de Barcelona, fatto che segnò l’inizio di un’attenzione verso i mercati d’esportazione che con gli anni diventerà strategica.

L’azienda intanto si sviluppa, i figli crescono e chi si fa notare è Davide che diventa l’erede di fatto grazie alle sue evidenti capacità imprenditoriali. Dopo aver lavorato in alcune liquorerie francesi, dove affinò le sue conoscenze tecniche, impose una nuova svolta all’attività sviluppando nuovi prodotti: il Vermouth Chinato, la Grappa di moscato, lo Sciroppo Orzata, l’Amaro Inglese, il Kinal, la Menta Glaciale Alpina, l’Amaro Venezia alla tintura d’Assenzio; ma soprattutto fu l’inventore del Cordial, un liquore da dessert fabbricato con spirito di lamponi, destinato anch’esso a un grande successo commerciale. Nel 1904 viene inaugurato a Sesto San Giovanni il nuovo stabilimento che segna definitivamente il salto dell’attività dall’artigianato all’industria.

Dall’artigianato all’industria

A cavallo tra Ottocento e Novecento Davide Campari introduce altre due importanti innovazioni. Comincia a fare grandi campagne pubblicitarie per i suoi prodotti, prima su Il Corriere della Sera, poi anche a mezzo di cartelloni affissi in vari punti della città. Ma ci fu anche un’altra innovazione che contribuì al successo del Bitter, cioè il fatto di ridurne la gradazione alcolica e di aggiungere una spruzzata di seltz ghiacciato che dava freschezza a un prodotto che sino ad allora veniva consumato, come tutti i liquori, in bicchierini a temperatura ambiente. Comincia anche l’esportazione dei prodotti Campari, prima nella vicina Svizzera e in Francia e poi nel Sudamerica, dove la domanda era sostenuta dai molti italiani emigrati nella seconda metà dell’Ottocento in quelle terre.

Ma nel 1915 scoppia la Prima Guerra Mondiale e arrivano anni difficili per chi, come la Campari, vendeva prodotti voluttuari sempre più difficili da smerciare in un paese provato dall’economia di guerra. Inoltre Davide fu richiamato e combatté come ufficiale degli alpini. Nel 1919, a guerra finita, Davide si trovò di fronte a scelte drammatiche. Decise di abbandonare i locali in Galleria, il Caffè Campari e il Camparino, un bar in piedi molto piccolo che aveva acquistato prima del conflitto. Si concentra sull’industria. Inoltre, dal momento che la guerra aveva causato penuria di molte materie prime come, per esempio, lo zucchero, decise di ridurre la gamma di prodotti e concentrarsi su quelli di maggior successo e che maggiormente avevano caratterizzato l’azienda: il Cordial e il Bitter Campari. La nuova strategia, inizialmente ebbe effetti drammatici sui fatturati che si ridussero dell’80%, ma nel medio termine la scelta della specializzazione si rivelerà giusta.

Negli anni Venti viene introdotta un’altra innovazione importante: la bottiglietta monodose per coloro che potevano farsi scoraggiare dal prezzo troppo elevato di una bottiglia intera. L’idea fu anticipatrice. Innanzitutto la monodose era molto più igienica e non consentiva quelle contraffazioni o adulterazioni del prodotto che erano molto diffuse, con i contenitori più grandi, e inoltre consentiva un dosaggio perfetto e non approssimativo e variabile tra il Bitter e il seltz. Stava per nascere il Campari Soda, che fu immesso sul mercato negli anni Trenta presentato in una bottiglietta a cono tronco o a calice rovesciato che forse fu disegnata dall’artista Fortunato Depero che aveva collaborato alle pubblicità della Campari. Quella bottiglietta, che fu uno dei primi esempi di design industriale, aveva altre due particolarità oltre alla forma: era prodotta in vetro granuloso per facilitarne la presa e incolore per esaltare il colore rosso del prodotto. In più, i nuovi flaconi erano facilmente trasportabili ovunque e, essendo di piccole dimensioni, era più facile raffreddarli per portarli alla giusta temperatura per esaltare il gusto del Bitter. Il successo del prodotto fu immediato.

La morte di Davide Campari

Ma ormai Davide Campari aveva quasi settant’anni e, dopo una vita dedicata al lavoro, non aveva eredi. Designò alla guida dell’azienda il nipote Antonio Migliavacca, figlio della sorella Antonietta, che nel 1932 prese in mano le redini dell’impresa. Davide Campari, colui che aveva trasformato una piccola ditta artigianale in una solida realtà industriale, morì il 7 dicembre del 1936.

La Seconda Guerra Mondiale rappresenta un altro brutto colpo per l’azienda: i fatturati si contraggono, c’è penuria di materie prime, la produzione continua ma a ritmi ridotti. Nel dopoguerra le vendite ripresero, prima lentamente, poi esplosero a partire dagli anni Cinquanta quando l’economia italiana cominciò a crescere a ritmi elevati mettendo le basi di quello che qualche anno più tardi sarebbe diventato il “boom economico”.

Nel 1954, però, muore Antonio Migliavacca, anche lui senza eredi. Le redini dell’attività passarono a sua moglie Angiola Maria Migliavacca, donna tenace che per tutta la vita aveva fatto l’insegnante senza alcuna esperienza imprenditoriale o manageriale, e che all’epoca aveva 61 anni. Essendo tuttavia una donna di forte carattere, grande intelligenza, grande buon senso e con una straordinaria capacità di lavoro riuscì a guidare l’azienda nei successivi vent’anni consolidando i risultati, espandendo il fatturato e soprattutto le esportazioni, puntando sempre comunque sul rinnovamento tecnologico degli impianti. La signora Angiola si ritirò dagli affari nel 1976, quando il testimone passa a Domenico Garavoglia, un dirigente della Campari che era stato, tra l’altro, suo allievo quando faceva l’insegnante e che negli anni aveva accumulato una grande esperienza e dimostrato indubbie doti manageriali. Nel 1982 Domenico Garavoglia e altri rilevano l’azienda. Il successo prosegue e l’azienda cresce, si rafforza e si espande soprattutto sui mercati esteri. Oggi è un esempio di quell’Italia che funziona, che investe, rischia e fa conoscere il “made in Italy” in tutto il mondo.

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