Agroalimentare italiano: un settore da valorizzare

Scritto da in data Settembre 28, 2020

Oggi affrontiamo un argomento più leggero e parliamo del settore agroalimentare italiano, un comparto fondamentale della nostra economia. Tutti conosciamo questa battuta:

«Maccarone me hai provocato e io te distruggo!»

Era Alberto Sordi nel film “Un americano a Roma”. I maccheroni sono assieme alla pizza l’emblema della cucina italiana. Il termine makkaroni, con due k, è stato usato per tutto il Novecento e viene usato, talvolta ancora oggi, soprattutto dai popoli germanici per definire in maniera un po’ spregiativa gli italiani. In realtà è un retaggio della Prima Guerra Mondiale: sino ad allora l’Italia era unita politicamente ma non era unita né dal punto di vista linguistico e nemmeno da quello gastronomico.

Per un’esperienza più coinvolgente, invece di leggere ascoltate il podcast 

Un po’ di storia

Nelle trincee della Grande Guerra sardi, piemontesi, siciliani, veneti, lombardi, abruzzesi, campani e via di seguito, hanno dovuto abbandonare il dialetto che era ancora la lingua primaria per la gran parte degli italiani e cominciare a parlare la lingua nazionale. Ma il paese si trovò ad affrontare anche enormi problemi di rifornimento. Mantenere al fronte un esercito con centinaia di migliaia di soldati significava doverli rifornire quotidianamente di armi, munizioni, vestiario e quant’altro. Ma anche di cibo.

Qualche anno prima nel 1911, era scoppiata la Guerra di Libia. L’Italia, afflitta da smanie colonialiste, voleva conquistare nuove terre ma in Africa i territori più ricchi e promettenti se li erano già spartiti inglesi, francesi e tedeschi, restava poco da conquistare. Si puntò sulla Libia che era, all’epoca, uno scatolone di sabbia – il petrolio ancora non era stato scoperto – ed era un Paese sotto la dominazione dell’ormai declinante impero ottomano. Quella guerra fu organizzata logisticamente da Napoli e Taranto, città dalle quali partivano i bastimenti per trasportare le truppe e i rifornimenti, anche quelli alimentari. Cogliendo l’occasione, alcuni produttori di pasta campani, che avevano buoni agganci in quello che allora si chiamava Ministero della Guerra, erano riusciti a piazzare alcune partite di maccheroni destinate alle truppe mandate a conquistare Tripoli. All’epoca i maccheroni e più in generale la pasta, era un prodotto alimentare che si consumava esclusivamente nelle regioni del Meridione e nemmeno in tutte, mentre al nord si mangiava polenta. Ma coloro che si occupavano delle forniture per il Regio Esercito si resero conto che i maccheroni avevano alcuni importanti vantaggi. Innanzitutto erano buoni, si potevano condire in mille modi diversi in modo da variare un po’ le sbobbe militari, erano nutrienti e, soprattutto, costavano poco. Durante la Grande Guerra tutti gli italiani impararono quindi a mangiare i maccheroni e austro-ungarici e tedeschi che si nutrivano prevalentemente di patate, forse per invidia, cominciarono ad affibbiare agli italiani l’epiteto, che nelle loro intenzioni era chiaramente spregiativo, di makkaroni, con la k, ricambiati dagli italiani che li chiamavano a loro volta kartoffeln, patate, in tedesco.

Dal momento che la mobilitazione bellica coinvolse i maschi adulti di tutta la nazione, tutti impararono a mangiare la pasta, che si diffuse anche nelle mense operaie delle grandi fabbriche, nei refettori scolastici, e negli ospedali.

L’Italia cominciò ad unirsi gastronomicamente durante il primo conflitto mondiale. Noi oggi, in piena era di globalizzazione anche alimentare, diamo per scontate cose che sino a qualche decennio fa non lo erano per nulla. Anche la pizza, che oggi si può mangiare dappertutto sia nel nostro paese che all’estero, fino ai primi decenni del Novecento era quasi sconosciuta al di fuori della Campania. La prima pizzeria aprì a Milano nel 1919, in piazza San Fedele, in centro, perché lì vicino c’era la Questura e all’epoca molti funzionari e questurini erano di origine napoletana.

Durante la Seconda Guerra Mondiale le ristrettezze imposte, sia dal regime autarchico che dalle necessità belliche, portarono a sviluppare l’industria alimentare nazionale per nutrire sia le truppe che la popolazione. In quel periodo nel basso milanese nacque, per esempio, un formaggio a pasta molle che per spirito patriottico fu chiamato “Belpaese” e che si produce ancora oggi.

Nel dopoguerra la ricostruzione, il miracolo economico e i flussi migratori dal sud Italia verso le città industriali del nord finirono per mischiare gusti, tradizioni culinarie, prodotti. Il nuovo benessere economico cambiò le abitudini sociali e i gusti gastronomici. La diffusione dei frigoriferi in tutte le case consentì di conservare meglio e più a lungo gli alimenti. Crebbero i consumi di carne e di pesce, quei prodotti che nell’Italia contadina pochi potevano permettersi mentre la maggior parte della gente li poteva mangiare soltanto nei giorni di festa. Si sviluppò l’industria alimentare, che presentava sul mercato sempre nuovi prodotti e nuove sfizioserie.

Dopo il periodo difficile degli anni Settanta, caratterizzati da crisi economica e terrorismo, i famosi “anni di piombo”, a partire dagli anni Ottanta l’economia si riprende, la grande industria si ridimensiona e lascia sempre più spazio allo sviluppo delle piccole e medie imprese. La grande creatività e lo spirito imprenditoriale degli italiani ridà slancio allo sviluppo economico e la gente vuole tornare a godersi la vita e anche i piaceri della cucina. Comincia il grande sviluppo della ristorazione, gli italiani vogliono uscire di casa, provare nuovi piatti, nuovi abbinamenti, nuovi sapori.

A partire dagli anni Ottanta, quindi, gli italiani, diventati più benestanti grazie alla crescita economica, potevano permettersi di mangiare in abbondanza, di scoprire e sperimentare nuovi gusti e cominciando a viaggiare anche all’estero iniziarono a scoprire nuove cucine, nuovi sapori.

A partire dagli anni Novanta, con la globalizzazione, l’Italia diventa meta a sua volta di flussi migratori un po’ da tutto il mondo e cominciano ad aprire ristoranti etnici, prima quelli cinesi, poi un po’ alla volta arrivano arabi, messicani, latinoamericani, africani, giapponesi, indiani e via di seguito. Ormai sono migliaia i ristoranti etnici anche in Italia.

Agli italiani piace mangiare ma piace anche parlare di cibo. Per gli italiani la cucina è una cosa importante, è parte integrante, costitutiva, del nostro approccio alla vita.

Italia e cibo: un connubio indissolubile

Durante il lockdown è accaduto un fenomeno che meriterebbe più approfondite analisi di natura sociologica: mentre gli scandinavi facevano scorte di alcolici, gli americani di armi, gli italiani hanno invece fatto scorta di pasta.

I popoli del nord Europa, inglesi, tedeschi, scandinavi, non hanno questa ossessione che hanno gli italiani per il cibo e trovano buffa questa nostra fissazione. Ora non vogliamo essere offensivi ma, pur con tutta la simpatia che possiamo avere per inglesi, tedeschi e scandinavi, che saranno bravissimi a fare mille altre cose, la cucina, per carità, non è decisamente il loro forte!

Noi italiani, quando si tratta di cibo, la prendiamo molto sul serio perché il cibo è importante, sul cibo non si scherza, il cibo è parte costitutiva della nostra identità nazionale, il cibo è parte integrante del nostro italian way of life, uno stile di vita salutare e piacevole che è fatto di: immagine, moda, cultura, design, bellezza, gioia di vivere, senso della comunità, spirito di solidarietà e ospitalità, che si uniscono alla capacità di godersi i piaceri della vita, quell’insieme impalpabile di sensazioni, immagini e suggestioni che rappresentano il fascino dell’Italia un po’ in tutto il mondo, e che spinge ogni anno decine di milioni di turisti, da ogni parte del pianeta, a visitare il nostro Paese.

Tutto ciò ha anche degli enormi risvolti economici. Dietro la nostra grande cucina, dietro la nostra passione, che talora diventa ossessione, per il cibo c’è un intero settore, una filiera produttiva che parte dai campi e dalle stalle e arriva sino alle nostre tavole, passando per l’industria di trasformazione. Tutta questa filiera produce ogni anno numeri molto significativi.

Vediamo qualche cifra in termini molto sintetici per non annoiare ma, come sappiamo, in economia i numeri sono importanti.

Automazione e scomparsa del lavoro

I numeri dell’agroalimentare italiano

Il settore agro-zootecnico italiano, cioè agricoltura più allevamento, sviluppa un fatturato annuo di circa 65 miliardi di euro a cui vanno aggiunti 140 miliardi di euro dell’industria alimentare. Complessivamente il settore agroalimentare produce 205 miliardi di fatturato che rappresentano all’incirca il 12% del PIL italiano. Il settore agroalimentare è il secondo più importante comparto della nostra economia dopo quello metalmeccanico.

Se poi aggiungiamo il settore della ristorazione, i numeri crescono ancora di più ma della ristorazione parleremo prossimamente in un’altra puntata.

La grande diversità territoriale e climatica del nostro Paese, le tradizioni gastronomiche secolari, una grande varietà di prodotti d’eccellenza sia a livello di produzione artigianale che industriale, un sistema produttivo nei settori della trasformazione alimentare, moderno e tecnologicamente avanzato, un sistema normativo e di controlli sulla sicurezza alimentare abbastanza efficiente, hanno contribuito alla crescita del mercato agroalimentare italiano.

Su circa 3.000 prodotti di qualità certificati a livello planetario con i marchi DOP, denominazione d’origine protetta e IGP, indicazione geografica protetta, ben 800 sono italiani.

Il settore agroalimentare negli ultimi dieci anni, che per l’Italia sono stati anni sostanzialmente di crisi o di crescita molto bassa del PIL, è invece andato in controtendenza con una crescita annua del 2-3%.

Il settore agroalimentare è per definizione un settore anticiclico, cioè anche se il ciclo economico è in fase di caduta dal momento che il comparto alimentare risponde a bisogni essenziali dei consumatori, la caduta in questo settore è comunque limitata, la gente può tagliare le spese superflue o quelle non essenziali ma non può certo smettere di mangiare. Poi magari può limitare certi tipi di consumi, per esempio il pesce o la carne che costano di più, ma per compensazione cresceranno i consumi di uova, pasta o legumi.

L’agroalimentare è anche uno dei settori di punta del nostro export. Le esportazioni ammontano a circa 45 miliardi di euro all’anno con un saldo attivo di circa 7-8 miliardi all’anno. Per saldo attivo si intende la differenza tra importazioni di quel settore ed esportazioni. L’Italia importa soprattutto materie prime agricole, per esempio cereali. L’industria della pasta impiega in buona parte farine importate perché la produzione nazionale non è sufficiente. L’industria dei salumi importa carni di maiale perché la produzione nazionale non è sufficiente ma persino il settore dell’olio d’oliva, nonostante il nostro paese sia il secondo produttore ed esportatore al mondo, è costretta a importare materia prima, quindi olio sfuso, che viene poi lavorato e imbottigliato in Italia. In sostanza, il nostro Paese importa materie prime agricole, le trasforma in prodotti alimentari e li esporta in tutto il mondo. Esportiamo latticini, formaggi, carni, vini, olio d’oliva, pasta, conserve, ma anche caffè, acque minerali, aceto, frutta, ortaggi, prodotti da forno, insaccati, tartufi, pesce.

L’Italia è il principale produttore europeo di riso, frutta, verdure, ortaggi, vino e il secondo produttore di olio d’oliva e agrumi.

Il successo della cucina italiana e dei prodotti enogastronomici italiani sui mercati esteri è testimoniato anche da due fenomeni, uno positivo e l’altro negativo. Quello positivo è rappresentato dalla quantità di ristoranti italiani che ormai si trovano in ogni angolo del pianeta, si calcola ce ne siano almeno 150.000 fuori dai confini nazionali. Poi, molti di questi di italiano hanno più l’ispirazione che altro, ma ci sono anche sempre più ristoranti italiani di buon livello.

Italian sounding

Il fenomeno negativo è quello che viene chiamato “italian sounding”. In ogni parte del mondo si trovano alimenti prodotti localmente che nel nome, nel packaging, cioè nella confezione, nei colori e nelle immagini della confezione ricordano o rievocano l’Italia ma che di italiano non hanno nulla.

Questi prodotti si trovano soprattutto nei paesi europei e del Nord e Sudamerica, nei quali esistono forti comunità di origine italiana, ma imitazioni dei pomodori pelati o dell’olio d’oliva italiano si trovano, per esempio, persino in paesi come la Cina o le Filippine.

Imitazioni dei nostri formaggi come il “Parmesan”, che rievoca il Parmigiano Reggiano, si trovano negli Stati Uniti o in Canada ma anche in diversi paesi europei, in Brasile si trova il “Parmesao”, in Argentina il “Regianito”. Molto imitata anche la mozzarella di bufala, talvolta presentata con una z sola o con nomi ancora più fantasiosi, come la “Zottarella” venduta in Germania. Ma si trovano anche imitazioni di formaggi come il pecorino, la robiola, il gorgonzola, il provolone, la fontina.

In Argentina si vende la “Salsa Pomarola”, mentre in California si produce un’imitazione dei pelati San Marzano.

Nel settore dei salumi i più imitati sono ovviamente il Prosciutto di Parma e il San Daniele ma si trova anche un’implausibile “Mortadella Milano” o una “Salama Napoli”.

Anche il settore vinicolo viene colpito. In Argentina si produce un vino che si chiama “Bordolino” a imitazione del Bardolino italiano e viene venduto con un’etichetta tricolore; in Romania si produce un improbabile Barbera bianco; in California si vende un’imitazione del Chianti; in Germania abbiamo dovuto vedere persino un’imitazione del Prosecco chiamato “Kresecco” con la K iniziale. Ma nei supermercati di alcuni paesi sono comparse cose ancora più incredibili come i tortellini “Mafia”, prodotti, secondo quanto falsamente si dice sulla confezione, in Sicilia, e addirittura la “Pizza Berlusconi”.

Per dirla con una battuta di un celebre film: «Abbiamo visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare!».

Qualcuno ha definito questi prodotti fake food e in effetti è una definizione efficace. Quei prodotti di italiano non hanno nulla, probabilmente non rispettano le normative sulla sicurezza alimentare che nel nostro Paese, per fortuna, sono piuttosto rigide, ma hanno una fondamentale caratteristica: costano meno dei prodotti originali che tentano di imitare e quindi finiscono, da un lato, per ingannare i consumatori e, dall’altro, per danneggiare le aziende italiane che potrebbero vendere molto di più.

Inoltre spesso quei prodotti hanno un sapore, un gusto molto diverso dall’originale.

Diciamo che l’unico lato positivo della faccenda è che finché ci imitano è buon segno, perché significa che i nostri prodotti comunque sono richiesti e apprezzati, persino quelli taroccati. Secondo alcuni calcoli fatti dalle organizzazioni di categoria, tipo Coldiretti, nel mondo si vendono ogni anno prodotti “italian sounding”, nel solo settore alimentare – perché il fenomeno colpisce anche altri comparti come per esempio la moda, abbigliamento o la cosmetica – per un valore che si avvicina ai 100 miliardi di euro.

Il settore agroalimentare potrà essere nei prossimi anni un traino importante per la ripresa del nostro paese dopo gli effetti disastrosi causati dalla pandemia da Coronavirus: è quindi un settore da salvaguardare e valorizzare.

Ora immagino che a forza di sentir parlare di cibo vi sarà venuto un certo appetito, vi capisco, un certo languorino sta venendo anche a me… e se qualcuno vi ricorda che bisognerebbe mettersi a dieta, almeno per oggi rispondetegli con una celebre battuta di Totò:

«Ma mi faccia il piacere, se ne vada!».

Per oggi abbiamo finito, buon appetito a tutti.

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