I Florio: l’ascesa di una dinastia imprenditoriale

Scritto da in data Novembre 23, 2020

I Florio sono stati dall’Ottocento fino agli anni Trenta del Novecento una delle importanti dinastie imprenditoriali italiane, ripercorriamone la storia.

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I leoni di Sicilia

Oggi racconteremo una storia, partendo da un libro che forse molti avranno letto recentemente e che si intitola “I leoni di Sicilia”. Si tratta di un romanzo storico di una giovane e brava scrittrice che si chiama Stefania Auci, che ha riscosso un meritato successo perché, tra le tante scemenze che l’industria editoriale riversa nelle nostre librerie, spicca sia per qualità della scrittura come anche per originalità del soggetto.

In quel libro, in maniera romanzata, la Auci racconta la storia di una delle più celebri dinastie del capitalismo italiano e, probabilmente, la più celebre di tutto il Meridione: la dinastia dei Florio.

Di questa famiglia di imprenditori di successo parleremo oggi e nella prossima puntata, raccontandovi la storia vera che è molto avvincente, anche perché di quella dinastia si sono ormai perse le tracce.

I Florio furono per tutto l’Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento una delle più grandi famiglie di imprenditori italiani, una di quelle dinastie che iniziarono, come suol dirsi, “in maniche di camicia”, cioè partirono da zero, per ritrovarsi dopo alcune generazioni di nuovo “in maniche di camicia”, cioè per ritornare a zero, perché questa non è una storia a lieto fine.

Una storia partita dalla Calabria

Questa vicenda inizia in Calabria a metà del Settecento quando Domenico Florio, figlio di Tommaso, di professione fabbro o, come si diceva allora, “forgiaro” in quanto forgiava gli zoccoli per i quadrupedi, decide di trasferirsi dal piccolo paesino di Melicuccà del Priorato, alle falde dell’Aspromonte, a Bagnara Calabra, una cittadina sul Mar Tirreno di quasi 6.000 abitanti a una ventina di chilometri dallo Stretto di Messina. Bagnara era all’epoca una zona franca, cioè non si pagavano imposte, e per questo attirava gente in cerca di maggior fortuna da tutto il circondario. C’erano diverse attività sia artigianali che commerciali. A bordo di feluche, piccole imbarcazioni a vela, i “bagnaroti” raggiungevano Napoli, Palermo, Messina acquistando e rivendendo merci.

Domenico non divenne ricco ma a Bagnara con il suo duro lavoro riuscì a sposarsi, mettere su famiglia, fare ben otto figli, costruirsi una casa in muratura e comprarsi anche alcune vigne.

Uno dei figli, Vincenzo, continuò l’attività paterna mentre altri due figli Paolo e Ignazio diedero inizio alle fortune imprenditoriali dei Florio. Una loro sorella aveva sposato Paolo Barbaro, appartenente a una famiglia di marinai, commercianti e proprietari di feluche con le quali vendevano legname e olio calabrese nei porti del nord e riportavano in Calabria e in Sicilia, soprattutto a Palermo, spezie e altri prodotti.

Nel 1783 un terrificante terremoto colpisce la Calabria, Bagnara viene quasi completamente distrutta e il 60% dei suoi abitanti muore sotto le macerie. Paolo e Ignazio Florio, seguendo il cognato Paolo Barbaro, abbandonano il mestiere paterno di “forgiari”, che ormai in una cittadina distrutta dal terremoto non dava più da vivere, e diventano “ambulanti del mare”.

A bordo di una feluca cominciano a trafficare tra le città dell’alto Tirreno: Livorno, Genova e persino Marsiglia, dove acquistano merci, soprattutto spezie e prodotti alimentari, per rivenderle poi in Sicilia.

Nel 1799, anche perché a Bagnara la terra continuava a tremare, un po’ per le turbolenze politiche che in quel periodo investivano il Regno di Napoli, Paolo con il fratello Ignazio, la moglie e altri membri della famiglia decisero di trasferirsi a Palermo, dove acquistarono una drogheria, un negozio dove vendevano direttamente al dettaglio quei prodotti che andavano ad acquistare nel nord Italia o nel sud della Francia.

Da una piccola attività di commercio di droghe, come venivano chiamate allora, i Florio passeranno ad altre lucrose attività imprenditoriali: il servizio postale, la pesca del tonno, un’azienda vinicola vicino a Marsala che darà il nome all’omonimo vino, l’estrazione dello zolfo, una fabbrica chimica, una filanda, una fabbrica di tessuti, una fonderia, un cantiere navale, una fabbrica di ceramiche, una compagnia alberghiera fino alla compagnia di navigazione.

Oggi le drogherie non esistono più, ma a quell’epoca erano un misto di negozio di spezie, erboristeria e farmacia, dove si trovavano rimedi di produzione naturale per curare diversi malanni come anche prodotti coloniali. L’industria farmaceutica ancora non esisteva. Ma nelle drogherie si trovavano anche quelli che oggi chiameremmo prodotti chimici, cioè tutta quella serie di prodotti che venivano utilizzati per produrre coloranti e vernici.

I Florio utilizzavano il negozio di Palermo anche come deposito e poi tramite dei commerciali rivendevano nelle fiere di paese di tutta l’isola i loro prodotti. Rifornivano gli ospedali e gli studi medici ma anche le famiglie aristocratiche che cercavano prodotti raffinati e costosi come spezie di utilizzo gastronomico.

La società si scioglie

Nel 1804 si consuma un dissidio irrimediabile con il cognato Paolo Barbaro, la società si scioglie, i fratelli Florio continuano l’attività per conto loro a Palermo dove li raggiungeranno altri membri della famiglia provenienti dalla natia Bagnara, mentre il cognato tonerà in Calabria.

Gli affari dei Florio vanno a gonfie vele: l’attività di commercio all’ingrosso e al dettaglio di generi coloniali, aromi, prodotti chimici li rende in pochi anni benestanti ma continuano ancora a vivere modestamente in una casa d’affitto. Lavorando sodo, grazie alla tenacia, alla testa dura e all’orgoglio tipico dei calabresi, i Florio si faranno strada, tra l’ostilità e l’invidia di molti palermitani. Ma nel 1807 Paolo Florio a soli 35 anni muore, probabilmente di tubercolosi, e lascia in eredità al fratello, alla moglie e ai figli una discreta fortuna.

Ignazio, il fratello minore di Paolo, prese in mano la gestione dell’attività anche per conto dei nipoti e della cognata e continuò a consolidarla. Cominciò a commerciare con Malta, che dopo la conquista inglese nel 1800 era diventata un importante snodo commerciale nel Mediterraneo, dove poteva approvvigionarsi di prodotti come: zafferano, gomma arabica, rabarbaro, cannella, noce moscata, caffè, minio, biacca e via di seguito.

Nei primi dell’Ottocento a Palermo avevano cominciato a insediarsi anche dei mercanti inglesi con i quali i Florio stabilirono subito buoni rapporti commerciali. Dopo il 1815, con la scomparsa di Napoleone Bonaparte e la restaurazione in tutta Europa, si riapriva anche il mercato francese e i Florio cominciarono a esportare prodotti tipici siciliani, principalmente zolfo e olio d’oliva, verso il porto di Marsiglia. Si allargava quindi il giro d’affari.

Gli anni Venti dell’Ottocento sono anni di diversificazione ed espansione delle attività dei Florio e dell’inserimento graduale del nipote Vincenzo nell’attività dell’azienda. I Florio si espandono sui mercati esteri cominciando a commerciare nuovi prodotti: carta, libri, ferro, formaggi, stoffe, rame, cuoio.

Negli anni Venti i Florio pongono le basi anche di altri futuri affari: acquistano un’imbarcazione in società con altri per distribuire meglio i loro prodotti in tutta la Sicilia, acquistano in Inghilterra un macchinario per ridurre in polvere la corteccia dell’albero di china. La china in polvere veniva utilizzata come farmaco antimalarico e per calmare le febbri. Si trattava di una grande innovazione: sino ad allora la polvere di china veniva prodotta artigianalmente dai farmacisti dell’isola che, infatti, fecero una dura opposizione ai Florio. Ma quel nuovo macchinario consentiva di abbattere i costi di produzione e allargare il mercato. Poi presero in gestione alcune tonnare, attività che avrebbero sviluppato nei decenni successivi.

Nel 1928 però Ignazio muore, lasciando erede universale l’adorato nipote Vincenzo che proseguirà le attività di famiglia. I nomi Vincenzo e Ignazio ricorrono nel corso delle generazioni dei Florio secondo una vecchia tradizione meridionale per cui ai figli si dà il nome del nonno o di qualche zio

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Vincenzo Florio, la seconda generazione

Vincenzo Florio rappresenta la seconda generazione di questa famiglia di imprenditori, è un uomo sveglio e ambizioso, un “duro”, uno di quei personaggi che non ha paura di nulla e di nessuno e che ha a disposizione già una discreta fortuna ma che viene ancora trattato con disprezzo dalla sonnacchiosa aristocrazia palermitana che lo definisce un “facchino fortunato”. Quel ceto aristocratico, che viveva nell’ozio dilapidando le proprie fortune, disprezzava i nuovi borghesi come i Florio che avevano fatto i soldi non per diritto di nascita ma grazie al loro ingegno e al duro lavoro e ai quali spesso dovevano ricorrere per farsi prestare somme di danaro per far fronte ai loro impegni. Quel disprezzo che un’aristocrazia decadente e decaduta riversava sui Florio era largamente ricambiato, come disse nel 1866 di fronte a una commissione parlamentare d’inchiesta Vincenzo: «L’ozio divora questa popolazione; l’ambizione la rovina; il lusso, la morbosa smania di tenere carrozza, è veramente sproporzionata ai mezzi che si hanno. Difficile trarla ad applicarsi all’industria e a un attivo commercio».

Una sintesi perfetta della lotta che ci fu per tutto l’Ottocento tra le vecchie classi aristocratiche abbarbicate nella difesa antistorica dei loro antichi privilegi e la nuova borghesia industriale e commerciale, la nuova classe emergente che, dopo la Rivoluzione francese non accettava più il vecchio mondo dove pochi privilegiati vivevano sulle spalle di chi faticava. La borghesia è la nuova classe emergente, è il motore dello sviluppo capitalistico.

Vincenzo aveva studiato e viaggiato in Italia e in Europa per imparare il mestiere ma anche per prendere contatti. Vincenzo diventò grande amico e socio in affari di un abile imprenditore inglese, Benjamin Ingham. Costui era il rampollo di una famiglia di industriali inglesi che possedevano una fabbrica di tessuti a Leeds. Giunto in Sicilia nel 1806, al seguito delle truppe britanniche alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali per i panni prodotti in patria, si stabilì nell’isola e, nell’arco di qualche decennio, divenne il più ricco imprenditore siciliano. Oltre a dedicarsi all’importazione di tessuti acquisì concessioni minerarie e iniziò a esportare lo zolfo che veniva prodotto in Sicilia. Poi comprò delle vigne nel territorio attorno a Marsala iniziando a produrre quello che fu chiamato “vino inglese”, qualcosa che assomigliava allo Sherry, un vino fortificato  che veniva prodotto in Andalusia, nella zona di Jerez de la Frontera e che piaceva molto agli inglesi. Quel vino dolce e liquoroso fu chiamato “Marsala”.

Poi Ingham investì nel settore della navigazione acquistando diverse imbarcazioni e riuscendo a mettere assieme la più importante flotta commerciale dell’isola. Ma Ingham fu anche un abile finanziere e si arricchì prestando danaro a condizioni non sempre oneste. Vincenzo imparò molto da Ingham, grazie a lui estese i suoi contatti all’estero, andò a comprare i prodotti da commerciare direttamente nei luoghi di produzione, anche se lontani, come le Americhe.

Da commercianti ad industriali

Gli anni Trenta dell’Ottocento sono un periodo cruciale per i Florio, il periodo nel quale gradualmente da commercianti cominciano a trasformarsi anche in industriali. Vincenzo aveva individuato alcuni settori molto interessanti nei quali investire, innanzitutto l’industria del pesce. Già lo zio Ignazio aveva preso in gestione alcune tonnare, Vincenzo decise di comprarsele e introdusse una grande innovazione sia tecnica che commerciale. Sino ad allora il tonno, come tutto il pesce, veniva conservato in barili sotto sale ma Vincenzo inizia a conservare il tonno nell’olio d’oliva e in barattoli di latta, metodo che preserva meglio il prodotto e ne mantiene il sapore. Poi investe nell’industria vinicola imitando l’amico Ingham e altri imprenditori inglesi, costruisce a Marsala uno stabilimento per la produzione dell’omonimo vino che verrà esportato in tutto il mondo. Si rende conto poi delle enormi potenzialità che ha l’industria dello zolfo. All’epoca la Sicilia aveva quasi il monopolio europeo di produzione di questo minerale sempre più richiesto dalla nascente industria chimica, soprattutto nei paesi industrialmente più avanzati come l’Inghilterra. Lo zolfo serviva ormai nella fabbricazione dei saponi, del vetro, della carta, dei coloranti, era diventato un prodotto richiestissimo. Vincenzo capì che poteva fare parecchi soldi sia acquisendo direttamente alcune zolfatare, sia finanziando i piccoli produttori che non avevano le risorse per mettere a reddito i loro piccoli impianti.

Vincenzo, ormai affermato uomo d’affari, aveva nel frattempo intrapreso una relazione clandestina con una ragazza di origini milanesi trasferitasi a Palermo con tutta la famiglia, Giulia Portalupi, dalla quale ebbe tre figli, decidendosi infine, nel 1840, ad arrivare al matrimonio.

La villa dei quattro pizzi

Nel frattempo, sia le ormai cospicue disponibilità economiche della famiglia, sia le esigenze del nuovo status sociale acquisito, spingevano a costruire nei pressi della tonnara dell’Arenella una lussuosa villa progettata dal miglior architetto palermitano dell’epoca, Carlo Giachery, grande amico di Vincenzo. Quella villa, che divenne famosa con il nome di “villa dei quattro pizzi”, impressionò persino lo zar Nicola I di Russia che dopo esservi stato ospite si fece dare i disegni della sala da pranzo in stile neogotico, molto in voga all’epoca, per riprodurli nella sala di una sua residenza a San Pietroburgo che fu poi chiamata “Arenella”.

Nel 1840 veniva costituita anche una nuova società per azioni, la Società siciliana dei battelli a vapore, dove tra i soci si trovano l’immancabile Benjamin Ingham ma anche molti nomi dell’aristocrazia palermitana che cominciava a rendersi conto che i tempi stavano cambiando e occorreva investire nelle nuove attività imprenditoriali se si volevano conservare i patrimoni. La nuova società collegava inizialmente Palermo con Messina, Napoli e Malta ma sarà destinata a dare molte soddisfazioni ai Florio.

Gli anni Cinquanta dell’Ottocento furono un periodo di grande espansione dell’attività dei Florio. Innanzitutto Vincenzo investì in una fonderia, la Fonderia Oretea, che per diversi anni stentò a decollare finché non liquidò i soci acquisendone il controllo totale nel periodo in cui cominciava a ottenere la concessione per il servizio postale nel Regno delle due Sicilie, servizio che veniva effettuato per mezzo di quelle navi a vapore sulle quali aveva investito intuendo che avrebbero presto sostituito gli ormai lenti e antiquati velieri. Per cui, mentre accresceva la flotta di navi mercantili, aumentavano anche le necessità di riparazioni e attrezzature che potevano essere fornite dalla fonderia.

Nel 1856 il Governo borbonico decide di privatizzare il servizio postale. Vincenzo Florio si aggiudica la concessione, beneficiando del fatti di aver nel frattempo costituito una nuova società di navigazione che aveva puntato decisamente sui piroscafi a vapore mentre i suoi concorrenti in gran parte ancora utilizzavano i velieri. Nel giro di pochi anni la nuova compagnia di navigazione gestisce oltre al servizio postale anche un servizio passeggeri non solo tra le principali città del Regno borbonico ma anche con le città del nord Italia: Livorno, Genova e Marsiglia.

Medaglia d’oro al Marsala Florio

Nel frattempo il “Marsala”, il vino liquoroso prodotto dai Florio, otteneva all’Esposizione Universale di agricoltura di Parigi, nel 1856, la medaglia d’oro, a conferma ulteriore del successo di un prodotto sempre più apprezzato e richiesto in tutta Europa e persino negli Stati Uniti.

Nel 1860 arriva in Sicilia Garibaldi con i suoi Mille. I piroscafi dei Florio vengono requisiti per il trasporto truppe e dopo l’annessione al Regno d’Italia Vincenzo Florio con assoluta disinvoltura appoggia il nuovo regime e quindi riottiene le sue navi e riceve persino dal generale Garibaldi un generoso indennizzo. Il nuovo Stato italiano con un mercato più ampio e ricco di quello del regno borbonico apriva a un imprenditore abile come Vincenzo Florio nuove opportunità che non voleva certamente lasciarsi sfuggire. Ottenne nuovamente, sia pure in condivisione con altre compagnie, la concessione per i servizi postali.

I Florio erano riusciti a passare indenni anche ai cambi di regime: Vincenzo, che era un uomo pragmatico, sostanzialmente disinteressato alla politica, si era subito schierato dalla parte di coloro che appoggiavano l’Unità d’Italia nonostante la sua famiglia avesse fatto fortuna sotto i Borboni: ma come si sa, business is business, gli affari sono affari, oggi come allora.

D’altronde al di là di alcune recenti riscoperte, da parte di gruppi cosiddetti neoborbonici, delle grandi virtù del Regno delle due Sicilie e dei loro sovrani − d’altra parte la mamma dei revisionisti è sempre incinta − i Borboni non avevano certo brillato per liberalismo e visione storica. La regola che ispirava il loro governo era quella delle tre “f”: farina, feste e forche. Per tenere sotto controllo il popolo, soprattutto i cosiddetti “lazzaroni”, la plebe dei grandi agglomerati urbani come Napoli e Palermo, che viveva di lavori saltuari, espedienti e carità, occorrevano distribuzioni gratuite di “farina”, quindi generi alimentari, “feste” per distrarre il popolo dalle sue disgrazie e infine, qualora le prime due “f” non fossero state sufficienti rimanevano le “forche”.

Vincenzo Florio si spegne nel 1868 lasciando due figli: una femmina e un maschio. La femmina si sposa con un rampollo della migliore borghesia palermitana e le viene liquidata la sua quota ereditaria. La gestione delle ormai numerose attività commerciali e industriali della famiglia passeranno nelle mani del primogenito, Ignazio. Ma della sua storia e di quella dei suoi successori parleremo nella prossima puntata.

I Florio: caduta di una dinastia imprenditoriale

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