La casa di Aziza

Scritto da in data Gennaio 19, 2022

KABUL − La strada che costeggia la salita segue la montagna coperta di neve, punteggiata di casette colorate fatte di mattoni dipinti e porte di lamiera. Alcuni bambini giocano in un cimitero con le fionde e ai piedi solo delle ciabatte senza calze. La casa di Aziza è su un cucuzzolo e da fuori sembra già diroccata. Per entrare bisogna poggiare su alcune pietre come se si scalasse il costato di una roccia. La porta di metallo si muove con fatica facendo un rumore sordo come quello di un vecchio che bofonchia, il corridoio sale verso l’alto con una scala sempre di ferro che in alcuni punti è rotta e bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi nel timore di sprofondare in un antro buio.

A fare strada Zaed, un bambino di otto anni dagli occhi vispi e la camminata veloce. Spalanca la seconda porta e veniamo accolti da un’ondata di calore. Ci troviamo in una stanza umile ma dignitosa, con i muri disegnati dalla fuliggine della stufa, ma i tappeti e i cuscini a terra molto puliti. Aziza seduta su un cuscino, ci guarda con un sorriso che traspare sotto la mascherina, nascosta in un velo verde che le incornicia il volto. Sono gli occhi tristi a non lasciare scampo. È come se dentro avesse un dolore, che se traboccasse attraverserebbe tutta la città. Ha 38 anni, 5 figli, 4 maschi e una bambina di 3 anni che afferra subito la mela che esce dalla nostra borsa.

La storia di Aziza è quella di centinaia di migliaia di donne afghane. È sola, ha tanti figli, non può lavorare perché il regime talebano impone che le donne non lavorino. Suo marito cinque mesi fa ha detto che sarebbe andato in Pakistan per trovare lavoro, e non ne hanno saputo più nulla. Non era un buon matrimonio, ci confida, lui non l’amava e non amava neanche i suoi figli. Ora non sanno se sia vivo o morto. Se tornerà o li ha abbandonati. Aziza è inchiodata in un limbo in cui i talebani, il suo genere, le tradizioni non le lasciano via di scelta.

«La mia casa è fatta di due stanze. L’affitto è di 25 dollari al mese, ma da quando mio marito, che prima raccoglieva plastica, è andato via, nessuno lo paga e il padrone ha detto che un giorno butterà tutte le mie cose in strada. Sono disperata che ne sarà di me e dei miei figli?»
La famiglia di Aziza è in Pakistan e lei da sola non può viaggiare, la famiglia del marito è a Jalabad nel sud e dice di non avere soldi da darle. L’unico aiuto che ha avuto è stato dal cognato, le ha prestato dei soldi, ma ora le dice che li rivuole indietro oppure, se non ha altro, può darle la piccola Ubna, la sua famiglia se la prenderebbe in casa, l’alleverebbe come fosse figlia loro e un giorno potrebbe farla sposare ottenendo i soldi della dote. Ubna ha tre anni, un sorriso che solo i bambini che ancora non capiscono tutto possono avere, e due dei suoi fratelli un po’ grandi giocano con lei sul tappeto, mentre gli altri due di dieci e nove anni sono fuori per cercare la plastica da bruciare nella stufa.

«Non permetterò che mi portino via Ubna, ma non so come farò, aspetto che mio marito torni». Sono passati cinque mesi e se non tornasse? «Non lo so, posso solo aspettare». Ma se ti buttassero fuori di casa? Sposta il volto come se non potesse neanche pensare a uno scenario del genere, ma in realtà non vuole mostrare le lacrime che le riempiono gli occhi e con la voce spezzata mormora: «Un detto afghano dice che il posto di un uomo è nella casa o nella tomba». Mentre a noi sembra di più il destino delle donne.
Ma Aziza, se tu potessi fare qualcosa? «A me piace cucinare, potrei preparare del cibo e venderlo, ma i miei bambini sono troppo piccoli per andare di casa in casa, e io non posso. Per questo vorrei che loro studiassero – ma dovranno adattarsi a lavorare loro, se lei non potrà farlo nel prossimo futuro – per avere una vita migliore della mia, una vita diversa. All’inizio non era così. Ma poi la situazione è peggiorata. Ogni notte sto sveglia a pensare, ma non trovo mai una soluzione, questa è diventata la mia vita, preoccuparmi sempre senza poter far niente se non aspettare». Zaed sta ascoltando e si commuove. Perché piangi Zaed, che succede? «Perché voglio studiare e poi andare a lavorare e non vedere la mamma così». Zaed ha solo otto anni.
Zaed che vuoi fare da grande? «Farò il talebano perché sono forti, ma con me tutte le bambine potranno andare a scuola».

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