Rivincite olimpiche

Scritto da in data Aprile 28, 2019

Le questioni politiche e sociali legate alle Olimpiadi: la partita del sangue nell’acqua a Melbourne ’56 e la storia della celebre foto di Tommie Smith e John Carlos ai Giochi del ’68 di Città del Messico

La partita del sangue nell’acqua

Siamo alle olimpiadi di Melbourne del 1956, è il 6 dicembre e, nella piscina del Crystal Palace, Ungheria e Unione Sovietica si stanno per scontrare nella semifinale del torneo olimpico di pallanuoto. Si tratta di una partita di altissimo livello visto che ad affrontarsi sono le due squadre favorite per il titolo finale. L’Ungheria è la nazionale medaglia d’oro di Helsinki ‘52 ma l’Unione Sovietica ha avuto la meglio nell’ultimo incontro ufficiale del ‘55. Prima di raccontarvi della gara conosciuta come “la partita del sangue nell’acqua”, però, è d’obbligo fare un passo indietro di poco più di un mese e tornare nell’emisfero boreale, più precisamente a Budapest.

L’antefatto

È il 23 ottobre del ’56 e nella capitale ungherese una normale manifestazione studentesca si trasforma di colpo in un’insurrezione popolare: l’onda della protesta contro il governo filo sovietico e contro la dittatura di Mátyás Rákosi, appartenente alla “vecchia guardia” stalinista, è inarrestabile; la situazione è precaria e, per trovare una soluzione, il Partito dei Lavoratori Ungheresi nomina primo ministro Imre Nagy che concede gran parte di quanto richiesto dai manifestanti, finendo per interpretare le loro istanze ed identificandosi con la rivoluzione in corso. Al momento della rivolta, la squadra di pallanuoto ungherese è in un campo di addestramento in montagna, sopra Budapest: pur avendo sentito gli spari e visto il fumo alzarsi sulla città non hanno notizie dirette della situazione e, precauzionalmente, vengono trasferiti in Cecoslovacchia.

Pochi giorni dopo, Nagy dichiara che la nazionale di pallanuoto viaggerà verso l’Australia in rappresentanza dell’Ungheria libera, nel frattempo cerca appoggio dai paesi esteri mandando richieste di aiuto per fermare la repressione comunista ma non riceve l’aiuto sperato perché, per una fatidica coincidenza, lo stesso giorno, si aggrava la crisi di Suez. Alla partenza della spedizione olimpica per l’Australia la rivoluzione sembra essere vittoriosa; la nazionale ungherese resta senza notizie fino al 20 novembre quando, arrivati in Oceania, Martin Miklós, il solo che parlava inglese, traduce ai compagni le ultime notizie pubblicate sui giornali australiani. E le notizie che arrivano non sono di certo confortanti: infatti. grazie all’intervento dei cingolati dell’Armata Rossa, la resistenza è stata schiacciata, Nagy è stato arrestato e oltre 3.000 ungheresi sono stati uccisi. In segno di protesta contro la repressione sovietica Spagna, Svizzera e Olanda decidono di boicottare i Giochi e, seppur per motivi diversi, Egitto, Libano e Iraq fanno lo stesso.

Lo scontro

I magiari sono scossi e disorientati e, per di più, non vedono una piscina da più di un mese visto che dove erano rifugiati non avevano a disposizione nessuna piscina; questo imprevisto ha costretto lo staff tecnico a puntare tutto sulla preparazione atletica e sulla tattica modificando il sistema difensivo, giocando la carta della difesa a zona: nel loro piccolo, un’autentica rivoluzione. Gli ungheresi arrivano agevolmente in semifinale, dove ad attenderli c’è proprio l’Unione Sovietica: quale migliore occasione per una sonora vendetta, almeno sul piano sportivo. Lo scontro attira una folla eccezionale, in larga misura composta dalla folta comunità ungherese emigrata in Australia. L’ambiente diventa subito incandescente: Zádor racconta che i magiari avevano deciso di evitare uno scontro fisico, ma di provocare verbalmente gli avversari per indurli a perdere la calma. Il piano funziona: dopo meno di un minuto dal fischio d’inizio arriva la prima espulsione temporanea per un atleta sovietico; nel giro di pochi minuti altri due compagni fanno la stessa fine, subito raggiunti da altrettanti ungheresi, i quali, però, conducono agevolmente grazie soprattutto all’efficacia della difesa a zona. Comincia il secondo tempo ma le schermaglie verbali non si interrompono:

“Noi gli urlavamo che erano dei bastardi, che avevano cannoneggiato civili innocenti, e loro ci chiamavano traditori. Ci picchiavamo, sopra e sotto il pelo dell’acqua”

ricorda Zádor. Con soli due minuti da giocare e con il punteggio saldamente in mano all’Ungheria, la frustrazione dei russi giunge al culmine e Valentin Prokopov, forse il miglior pallanuotista sovietico della sua generazione, sferra un colpo al volto di Zádor causandogli una larga ferita sul sopracciglio. Quindi il sangue, l’acqua che si tinge di rosso, la folla inferocita, la fine fischiata in anticipo (anche se il 4-0 viene comunque omologato), i sovietici sottratti a stento a tentativi di linciaggio e i magiari applauditi dal pubblico entusiasta. La vittoria costa assai cara a Zàdor: tredici punti di sutura e la mancata presenza nella successiva partita vinta contro la Jugoslavia che vale l’oro olimpico. Le lacrime, quelle vere e amare, non quelle di sangue, l’ungherese le versa, copiose, sul podio. Saputo quello che era successo a Budapest, già prima della partita aveva detto che non sarebbe più tornato in Ungheria. Zàdor va a vivere negli Stati Uniti dove, assieme ad altri compagni, chiede asilo politico. Nella sua nuova casa si reinventa in un ruolo ibrido fra l’allenatore di nuoto e il talent scout. Sarà proprio lui, agli inizi degli anni sessanta, a scoprire ed allevare uno dei più forti e talentuosi nuotatori della storia: Mark Spitz.

Sullo stesso argomento: Memorie Olimpiche

Una foto che ha fatto la storia

Tra le fotografie che hanno fatto la storia dello sport c’è senza dubbio quella scattata durante la premiazione dei 200m a Città del Messico il 17 ottobre del 68: quella che ritrae sul gradino più alto del podio lo statunitense nero Tommie Smith con il pugno destro alzato. Oltre a Smith, che ha appena fatto segnare il record del mondo, sul podio ci sono l’australiano Peter Norman, medaglia d’argento e John Carlos, terzo classificato, amico e connazionale di Smith. Smith e Carlos sono due studenti di sociologia, il primo è nato in Texas ha 24 anni ed è il settimo di undici figli, padre raccoglitore di cotone; il secondo, invece, ha 23 anni ed è cresciuto ad Harlem con il padre che fa il calzolaio.

Sta suonando l’inno statunitense e Smith e Carlos, con le medaglie al collo in bella mostra, abbassano la testa ed alzano al cielo un pugno guantato di nero. L’australiano Norman è rigido e impettito, sembra quasi sorpreso dal gesto provocatorio e politicamente dirompente dei due neri statunitensi ma, guardando bene, si vede che anche lui porta la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights del quale i due americani sono rappresentanti. L’Olympic Project for Human Rights è stato fondato l’anno precedente dal discobolo Harry Edwards per dare voce agli atleti di colore, stufi di essere considerati eroi per un giorno e schiavi nei campi di cotone per l’intera esistenza. L’intento iniziale di boicottare i Giochi è irrealizzabile quindi agli aderenti all’iniziativa viene data la possibilità di protestare in modo personale ed autonomo indossando una coccarda. Smith e Carlos fanno molto di più: si presentano senza scarpe, indossando calzini neri in segno di povertà, con i pugni alzati guantati di nero, con la testa bassa e con una piccola collana con delle pietruzze al collo perché

“ogni pietra rappresenta un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato”.

Per capire il gesto dei due americani è bene inquadrarlo nel contesto storico di quegli anni: sono gli anni delle agitazioni del 68, del risentimento, dello sconforto e della rabbia per l’assassinio di Martin Luther King e di Bob Kennedy. È l’anno in cui a dominare la scena americana sono le Black Panthers, che fanno proprio della mano guantata di nero uno dei loro simboli. Sono gli anni della strage della Piazza delle Tre Culture a Città del Messico appena prima dell’inizio delle Olimpiadi. Un massacro compiuto dall’esercito messicano nei confronti di oltre 200.000 studenti: al di là delle cifre ufficiali dichiarate dalle fonti governative, si stima con buona approssimazione che rimasero uccisi circa 300 civili.

Ma torniamo ai giochi: successivamente alla premiazione, per decisione di Avery Brundage, presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Smith e Carlos vengono sospesi immediatamente dalla squadra statunitense ed espulsi dal villaggio olimpico. Ormai, però, sono diventati un modello da seguire: Ralph Boston, bronzo nel salto in lungo, presiede scalzo alla premiazione, Bob Beamon, medaglia d’oro nel salto in lungo, non solo si presenta scalzo ma non indossa neanche la tuta di rappresentanza statunitense. Lee Evans, Larry James e Ronald Freeman salgono sul podio calzando un basco nero in testa, Jim Hines, oro nei 100 metri, si rifiuta di farsi premiare da Avery Brundage.

Terminati i giochi Smith viene espulso dall’esercito per “indegnità” e si impiega in un autolavaggio. Carlos non è molto più fortunato e trova lavoro come scaricatore di porto a New York e come buttafuori ad Harlem. Il Ku Klux Klan gli fa recapitare dello sterco e riceve continue minacce di morte telefoniche; questa vita d’inferno è probabilmente fatale alla moglie di Carlos che non regge la pressione e si suicida. Anche Norman, l’argento olimpico, viene boicottato in Australia: nonostante ottimi tempi di qualificazione sui 100 e 200 metri non viene aggregato alla rappresentativa australiana a Monaco 72-  e dire che con il suo 20”06 avrebbe vinto l’oro! – . Muore per un problema cardiaco nel 2006 e, fra gli altri, a reggere la sua bara ci sono Smith e Carlos.

Durante un’intervista, a proposito di quella foto che ha cambiato la sua vita e quella di Smith, Carlos racconta:

“Quell’immagine di me e Tommie sul podio è la moderna Gioconda, è un’immagine universale che tutti vogliono vedere ed alla quale tutti vogliono essere collegati in un modo o nell’altro, e sai perché? Perché eravamo in piedi per qualche cosa, eravamo in piedi per l’Umanità” .

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