Come (non) si organizza un viaggio
Scritto da Eleonora Viganò in data Febbraio 14, 2020
Non so dire come si organizza un viaggio e se lo sapessi non sarei in ansia a ogni partenza, non sbaglierei autobus, non avrei – forse – così tanti contrattempi e sarei più informata sulla storia e la politica del luogo che scelgo di visitare, quasi sempre senza motivi nobili o specifici, molto più spesso per esclusione tra guerre, costi dei voli e sentito dire. Mi ricordo balbettii alle domande sul Kilimanjaro, sui ramponi, sulla vegetazione, sulla guida: a cinque – e dico cinque – mesi dalla partenza! Io non funziono così. Che senso ha riempirsi di informazioni inutili, quando la sola cosa da fare a marzo è allenarsi costantemente e duramente per agosto? Il resto, in teoria, arriverà. Per conoscere, a volte, devo solo fare: per conoscere, a volte, devo solo partire.
Panico!
Interno aeroporto, 4 agosto 2017.
I monitor mi dicono che devo andare: stanno imbarcando il mio volo. La meta finale è Dar es Salaam con uno scalo a Francoforte. Gli scali, si sa, sono quasi sempre a Francoforte: si cammina per chilometri, ci si perde, si corre per la coincidenza o si mangiano bretzel e frappuccino. Non ricordo niente di quello scalo, forse eravamo in ritardo. Quello che ricordo è la telefonata alla mia analista quando ero ancora a Malpensa, mentre saliva dalla gola su, su verso naso, bocca e testa, un panico mai provato. Il mio zaino pesava troppo: c’erano i bastoncini da trekking, gli scarponi, piumino, pile, giacca. Andavo in Africa ad agosto eppure non ne avevo l’aria. A Malpensa, tra il duty free e i monitor che indicavano il gate, era successa una cosa molto banale: mi ero fermata. Finalmente potevo pensare solo al viaggio e ne avevo tratto una sola conclusione: non sapevo nemmeno dove stessi andando. Nei quattro giorni di ferie prima della partenza avevo scoperto che mi aspettavano dieci ore di bus dalla città di Dar fino al punto di partenza per il Kilimanjaro, Moshi. Avevo prenotato la prima notte in un albergo qualsiasi, rinunciando al mio ostello per backpacker dall’altra parte della città: tutto per dormire vicino alla fermata degli autobus, in modo da poterne prendere uno in comodità alle 6:30 del mattino successivo al mio arrivo. Avevo scoperto che la persona alla quale mi ero rivolta per salire sul Kilimanjaro era una guida libera, sciolta, probabilmente non legale, probabilmente di frodo. Ho tergiversato, mandato mail, cercato compagnie, certificazioni, sicurezze e gruppi di persone. Alla fine, ne ho scelta una – Gladys – che fosse un compromesso. Mi sono unita, a distanza, ad altre quattro persone: una coppia del Texas, una donna neozelandese e una donna irlandese. Ricordo ancora il mio avanti e indietro per Corso Garibaldi con il cellulare in mano e gli occhi fissi sulle mail. Mancavano tre giorni, poi due, poi uno: dovevo trovare un modo per iniziare dal Kilimanjaro.
Dove sto andando?
All’aereoporto mi ero quindi accorta che la sola cosa che sapessi, di tutti i miei 33 giorni in Tanzania, era come arrivare a Moshi e salire sul Kilimanjaro. Non sapevo altro. Mi dicevo che alla fine dell’esperienza mi sarei messa comoda a un tavolo con la mia guida turistica per capire dove andare, mi dicevo che era ciò che volevo: la libertà di decidere al momento, di stare se mi piaceva stare, di andare se volevo andare. Così ho fatto, dopo i sette giorni di trekking. Mi sono seduta al caffè accanto al mio alloggio e ho guardato la guida, ho chiesto informazioni sui bus, ho deciso. Poi ho cambiato idea, poi ho deciso di nuovo, poi ho cambiato ancora idea per trovarmi all’ultimo momento su un’automobile diretta a un paesino vicino a Ngorongoro, con un’autista sconosciuto ma fidato, che guidava al buio senza poterlo fare e che ha pagato la polizia corrotta a ogni posto di blocco, con me accanto rigida e preoccupata. Sono andata avanti per prove ed errori per diversi giorni, spostandomi con una frenesia inadeguata per quei luoghi e quelle distanze: passavo più ore sui mezzi che ferma in ascolto.
“Dove vuoi andare?”
Il problema era proprio l’assenza di interessi. Non sapevo cosa volessi vedere, quali zone: tutto mi sembrava così privo della bellezza del Brasile, della Siberia, della Mongolia. Non avevo nemmeno un tema come, per esempio, storia, arte, natura. Ero un flipper che aveva pianificato qualcosa sì, ma qualcosa di impreciso: Kolo era la mia unica fissazione, poi Mwanza, il lago Tanganica – che alla fine ho saltato –, la costa orientale. Troppo e male. E per non perdermi qualcosa, ci ho aggiunto anche un mini-safari. Mi sono lasciata sedurre dagli avvenimenti casuali e dagli incontri prima di dire basta. Prima di fermarmi e rallentare continuando in parte a farmi trasportare da qualche evento – ho seguito due ragazzi per Zanzibar anziché tornare in ostello a Dar.
Mappe che non so leggere, bussole che non so usare
A Zfat, in Israele ci sono arrivata senza nemmeno conoscerne il nome prima di quel momento. Mi è stata consigliata il giorno prima da un amico, prima di arrivare da una donna che amava la Toscana e che mi ha prestato un pile color puffo per non morire di freddo, mentre andavo a comprare un piumino. Il cammino in Israele e Palestina lo avevo deciso a settembre con partenza il 22 dicembre: avevo finto di prepararlo. Avevo comprato oggetti inutili, avevo mappe che non sapevo leggere e guide che non avevano senso. Avevo google maps e numerosi consigli non richiesti o addirittura sbagliati – o quantomeno esagerati – sulla Palestina. La sola informazione corretta, verificata e ribadita via mail dallo stesso gestore dell’accoglienza – ossia che tale accoglienza sarebbe stata chiusa dal 24 dicembre per le festività natalizie – non l’ho ascoltata: a Iblin sono arrivata esattamente il 24 dicembre. In Etiopia sono arrivata ad Addis Abeba vagando per un giorno per vie che non capivo, incerta e insicura prima di incontrare un’amica. Ad Addis Abeba ci ho messo un mese a prenotare un ostello per le prime due notti, prima di andare ad Aksum: non capivo le distanze, il centro, la comodità. In Etiopia avevo imparato la lezione e mi ero decisa per alcune aree, per alcune tematiche precise, variando di poco, restando di più o andando via prima.
Attutire il rumore di fondo
Ho sbagliato zaini, abbigliamento, ho comprato cappelli e guanti o vestiti leggerissimi in Siberia, ho perso occhiali da sole, magliette e felpe. Ho scoperto città direttamente sul posto, ho sbagliato bus e così facendo ho scoperto quelli giusti quando era ormai tardi, ho rinunciato, tentennato, desistito, ho lasciato perdere, ho cambiato mete oppure ho seguito rigorosamente i piani prefissati, ho aspettato oppure sono rimasta meno del previsto. Ho sempre – e dico sempre – avuto qualche paura. Ho sottovalutato rischi e amplificato pericoli inesistenti. Non ho mai consultato (troppi) libri prima di partire. Ricordo di aver guardato in silenzio persone che volevano sapere informazioni che non avevo, a cinque mesi dalla partenza: perché mi do priorità per attutire il rumore di fondo. Monete, governi, clima, vegetazione, ramponi, sentieri, strumenti e attrezzature: non so queste cose – non sempre – se non servono. Le imparerò quando sarà il momento. Quando mi stavo allenando per il Kilimanjaro, la sola cosa che avevo in testa era: camminare in montagna, ogni weekend. In settimana lavoravo e come pendolare il tempo era pochissimo; nel weekend camminavo costantemente. Era marzo, aprile e io non avevo la mente libera abbastanza per riempirla di nozioni sul Kilimanjaro che in quel momento erano inutili. Sapevo che dovevo trovare una guida e che il percorso era fattibile senza essere alpinista. Questo era sufficiente. L’allenamento poteva iniziare. È un atteggiamento che genera confusione, che mette insicurezza, che mi fa sentire ignorante e incapace. Un atteggiamento da procrastinatrice che mette panico persino a me: in aeroporto a Malpensa, pronta per partire senza sapere per dove.
In copertina, foto di Eleonora Viganò
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