Chiamatelo come volete, ma non guerra

Scritto da in data Marzo 26, 2020

Esco di casa per la prima volta in dieci giorni, o forse sono dodici, mi è difficile tenere il conto delle giornate che improvvisamente sono diventate tutte uguali che sia un mercoledì o una domenica. Qualsiasi cosa faccia, mi sembra di farla sempre, che sia lavorare a Radio Bullets, al nuovo libro, leggere oppure guardarmi una serie. Mi sento un po’ un criceto sulla ruota, ma non sto male. Parlo con gli amici, lavoro, ho la spesa che mi arriva a casa quando riesco a farmela portare. Sento parlare della tragedia, quella del coronavirus, che ha messo mezzo mondo in ginocchio come se fossimo in guerra.  Ma non lo è. Per quanto questo sia un disastro, per quanto il dolore sia contagioso quanto il virus, per quanto ci siano migliaia di morti e di persone distrutte, non è guerra. Forse alcune delle risposte e delle conseguenze possono essere paragonabili, ma grazie al cielo, per noi a cui è stato chiesto solo di stare a casa, non è guerra. Molti hanno perso amici, molti il lavoro, altri sono schiacciati dal non potere essere liberi di godere delle proprie scontate libertà come uscire, vedersi, abbracciarsi, andare ad un teatro, ma questa non è guerra.

E’ una tragedia piena di sofferenza e sacrifici, ma non è una guerra. Ogni volta che dal divano guardo il soffitto di casa e so che non mi crollerà addosso, so anche che non è una guerra. Ogni volta che apro l’acqua e mi esce copiosa e calda, so che non è una guerra. Si può anche aver paura di essere contagiati, ci si può sentire soli e impotenti, ma non è una guerra dove si rischia di essere stuprate o sgozzati.
E’ uno schifo, ma non è la paura di morire ammazzati da qualcuno e non ha l’odore della guerra. Quell’odore acre di carne bruciata o di corpi putrefatti abbandonati sotto le macerie, quell’odore di polvere da sparo e di gas. I morti non li lanciano sopra agli altri cadaveri, in una camera mortuaria senza elettricità come ho visto accadere al corpo di un neonato ad Haiti durante il colpo di Stato, mentre mi schiacciavo il naso con un fazzoletto impregnato di profumo perché dovevo contare i cadaveri che il dittatore negava ci fossero. Ho preso quel bambino che era stato lanciato da uno che non ne poteva più e l’ho sistemato come meglio potevo perché pensavo ai suoi genitori disperati. E mi faceva orrore, ma non si poteva non farlo, l’ultima volta che qualcuno avrebbe toccato quel bambino, non sarebbe stato un infermiere che non ne poteva più. Perfino io sarei stata meglio di niente.

E non ha neanche il suono della guerra, quei bum dei kamikaze, quei tonf dei bombardamenti, quei rattatta delle raffiche che fanno venire gli incubi. Il suono della gente che scappa, di quella che scava, di quella che urla, dei palazzi che si ripiegano su se stessi. Qui abbiamo, invece, un silenzio che all’inizio era quasi surreale, ora è diventato conciliante, che ti ricorda una città ferma, ma non distrutta.

Qui ti alzi e vai verso la dispensa e al massimo pensi che domani dovrai comprare altra pasta, non come in Iraq dove mamme trascinano i loro bambini al mercato per poi trovarseli fatti a pezzi tra le braccia dopo un attentato. Non è lo Yemen dove i razzi colpiscono gli scuolabus o dove i bambini non si possono mai lavare le mani perché non c’è acqua. Non è un posto dove gli ospedali vengono bombardati. Non è l’Afghanistan dove i bambini camminano per strada sperando di non saltare su una mina.
Non sto sottostimando la tragedia, non c’è una classifica del dolore. Ma pandemia e guerra sono due cose diverse e per nulla avvicinabili. Le parole sono importanti. Sono valori che escono dalle nostre bocche e dalle nostre penne. E a volte bisogna essere precisi. Non si rende questo disastro più elevato solo perché lo si porta a stato di guerra come si fa quando si parla di calcio. Non ce n’è bisogno.

Quello che ci sta capitando non è il fallimento della politica e non è una giungla. Centinaia di scienziati stanno lavorando per debellare questa peste e anche se verrà trovato un vaccino magari non raggiungerà mai quelli che la guerra la vivono veramente, perché neanche i vaccini che già ci sono, spesso riescono ad averli. E penso a tutte quelle ong, attaccate dai mediocri, che lavorano ancora lì e ora stanno lavorando qui.

Non dimentico chi in questo momento non ha una casa, un paese, una voce di conforto. Una mia amica la sera va a portare il tè ai senzatetto, altri portano panini. Esce da casa rischiando perché pensa agli altri. Penso alle donne chiuse nelle case con i mariti violenti e annuso altre tragedie perché la casa dovrebbe essere il simbolo della protezione delle persone.

Ma penso anche a quelli che dalla guerra sono scappati e si ritrovano intrappolati in un’epidemia. Non dimentico chi sta male e che deve essere isolato dai familiari e neanche quella fila di mezzi dell’esercito che trasporta bare che vagano verso cimiteri che magari da vivi non hanno mai visitato. Sono morti soli, saranno sepolti soli, i loro familiari quando tutto sarà finito, andranno a cercarli perché non sanno dove sono sepolti e penso a tutti quelli che fuggono da un paese dove la guerra li uccide, e fuggono con la speranza di trovare un posto migliore e muoiono in mare, penso a quei genitori che hanno visto i figli partire e non sanno che non li vedranno mai più. Ai nomi che non avranno tombe, alle storie che non saranno mai raccontate.
Penso che oggi ci sentiamo un popolo, in guerra ci si divide. Penso a quello che in questo momento possiamo imparare per diventare una società migliore, mentre dalla guerra non si impara niente, se non che non bisogna scatenarle.

La prima volta che ho seguito una catastrofe naturale, andai a Bam in Iran per il terremoto, 30 mila morti, non avevo mai neanche immaginato tanti cadaveri, quell’odore di morte che mi sono riportata in Italia e che mi sono sentita addosso per altre due settimane dopo che ero rientrata, perché anche se non puzzavo davvero, mi era entrata nel cervello. Promisi a me stessa di non scrivere più di catastrofi perché non potevo elaborare la morte colposa, mentre in guerra qualcuno a cui dare la colpa per la morte delle persone, si può sempre trovare. Ovviamente ho infranto diverse volte la promessa, perché quando si fa questo mestiere, si cavalca la notizia, al di là di quello che sopportiamo o vogliamo. Ne parlo perché in guerra ci sono stata e non è questa.
Ora dobbiamo stare a distanza, ma non siamo mai stati tutti così vicini. In guerra non è così, il ragazzo che intervisto mentre piange con lo scalpo della madre uccisa tra le mani che non riesce a lasciare andare, sarà sempre solo. Ora il mondo è unito, in guerra non è così.

Sono uscita perché dovevo fare un po’ di spesa. Mi metto in fila in una stradina stretta di Roma e tutti sono ordinatamente a distanza, mi rendo subito conto che sono l’unica che non indossa una mascherina o qualcosa che ne fa le veci tipo la mascherina per gli occhi che indossa buffamente una signora sulla bocca. Mi sento bene e questo mi fa sentire un po’ in colpa. Ma so che il mio dovere lo compio stando a casa, che salvo me e qualcun altro. Non fumo, non ho cani, non sono una sportiva anche se scalpito per poter uscire e continuare a raccontare quel mondo dove si sta male e che i giornali spesso schifano, ma che a me fa sentire la persona che voglio essere. Mi godo un raggio di sole e aspetto. Vorrei respirare a pieni polmoni ma i cassonetti strapieni attaccati da un corvo che rompe i sacchetti e sparge la pattumiera, mi impedisce di farlo. Probabilmente passeranno altre due settimane prima di ripasseggiare fuori, ma non mi sento in guerra.

Entro, prendo le quattro cose che mi servono, scambio due battute con il cassiere simpatico e me ne torno il più lentamente possibile a casa dove chiudo fuori il virus, ma non il mondo. Ho scoperto che a casa ho i miei amici alla distanza di 30 centimetri, anche se sono su uno schermo. Ho i miei familiari sparsi in regioni, se non addirittura in paesi diversi, ma li sento come sempre. In guerra non ti scambi ricette, non ti scambi meme, non ti arrivano video simpatici. Le fakenews girano sempre, è inesorabile in qualsiasi fase del mondo si viva.

Certo, mi manca uscire, mi preoccupo che come me, molti giornalisti indipendenti non stanno guadagnando o lavorando, che il governo non si accorge di noi ultime ruote del carro, di certo non i soli, ma la cosa più importante è che non ho paura. In guerra si ha paura. Paura dell’altro, della cattiveria, dell’ingiustizia, dell’essere dimenticati o non riconosciuti. La paura della sofferenza delle ferite del corpo.  La paura che nessuno arriverà a salvarci. La paura che sarà sempre troppo tardi.  La paura dei traumi, la paura di sopravvivere agli altri, la paura di non sapere più crearsi una normalità.

In guerra hai paura di pensare, noi qui possiamo anche non fare altro. Sarà l’idea, il pensiero, l’illuminazione, lo sforzo di ricerca, gli studi di qualche scienziato che tra un’ora, due giorni, o un mese ci salverà da questa pandemia.

Oggi posso essere preoccupata del razzismo, perché gli sciocchi, i furbi in malafede e gli ignoranti imperversano in queste situazioni, o posso essere angosciata per chi mi circonda e sta male, posso essere devastata da chi ha perso qualcuno che amava, ma non ho paura e rispetto chi ce l’ha e anche se mi chiedo cosa farebbero se si trovassero davvero in guerra dove neanche le nostre case ora tutte pulite e rassettate, potrebbero proteggerci o salvarci. Non lo auguro a nessuno. Ma spero ci si ricordi di questo momento.

Prima o poi ne usciremo, vero, molte persone non ci saranno più e questo è inesorabile, ma riprenderemo le nostre vite in mano e tutto quello che nel frattempo abbiamo scoperto, la lentezza, la lettura, gli amici dimenticati, la libertà, le passioni per cui non avevamo mai tempo. I film, la buona cucina di casa, lo stare in famiglia per chi ce l’ha e per chi troverà la forza di lasciarla se non è riuscito a sopportarlo. Ci sarà di nuovo il cinema, il teatro, i concerti, le passeggiate al mare, le serate con gli amici al ristorante. Torneranno i tormentoni e perfino Vespa temo, perché il nostro mondo non è in macerie, ma solo congelato in attesa di riprendere a vivere. In guerra non è così. E neanche dopo per chi l’ha subita.

 

Foto di copertina: Jordy Meow on Unsplash

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