Due notti insonni

Scritto da in data Agosto 2, 2019

 

Il viaggio è al suo capolinea: Beijing, in Cina. È l’ultima sera, da sola in un ristorante con il menù in cinese e il personale che parla solo cinese. Non ho Gmail né Facebook. Sto per ripartire e lasciare quel luogo per tornare, con la rapidità di un volo, a Pavia. Ma prima di quel momento ci sono ancora le preghiere in un tempio mongolo, due notti insonni, un calciatore giapponese e un ragazzo polacco, un tassista che non trova il mio ostello e un coreano con cui dividere la cena.

Ultima sera

Entro nel locale, mi guardo intorno: non c’è molta gente e la poca che vedo si alzerà dal tavolo dopo qualche minuto. Ho molta fame. Sono stata per ore da un tizio che ha un internet point per cercare di fare un check in e stampare il biglietto aereo. Avevo anche bisogno di altro, che ora non ricordo, ma so con certezza che non avevo Facebook e Gmail. Forse riuscivo a usare whatsapp. Sono andata avanti e indietro dal negozio mille volte per quel biglietto, ma poco male: di quella città avevo visto quanto possibile in quattro giorni, gli ultimi disponibili, di cui uno con la febbre a causa di un viaggio troppo lungo in treno e in sleeper bus.
Ma andiamo con ordine.

Meditazione e scoperta

Ero partita da Ulan Bator quattro giorni prima, di notte, dopo aver meditato per mezza giornata al tempio di Gandan. Ero rimasta a lungo lì dentro per condividere una pratica aperta a tutti. Ho tolto le scarpe, mi son seduta per terra e ho seguito alcune semplici regole per poter essere rispettosa e partecipe. Gli altri avevano tutti il mala con 108 grani; io avevo quello piccolo, il braccialetto, che di grani non so quanti ne abbia. Ricordo qualche parola, qualche istruzione anche se non so di preciso cosa mi abbiano detto. Non sapevo, ero immersa nel flusso, attorniata da gente in preghiera. Il mantra scorreva: quale mantra? Non saprei dirlo. Era un mantra? Assomigliava a un suono, a una parola o forse erano più parole. Magari era una frase, un sintagma. Non avevo alcun bisogno di sapere il senso: riuscivo ugualmente a meditare e a pregare in mezzo a toni caldi, al colore giallo. Ho ringraziato e ho lasciato un’offerta.
Nel pomeriggio ho visitato ciò che avevo lasciato per ultimo: i musei e la storia. Mi sono soffermata a lungo sugli oggetti e le didascalie, ho ammirato le conquiste, l’avvicendarsi degli eventi, l’importanza di una parte di mondo che non si studia a scuola. Pensavo: dicono di non fermarsi troppo a Ulan Bator, non ne vale la pena. Quel giorno di troppo è stato invece uno dei giorni più intensi e meglio spesi, senza fretta. Ho lasciato depositare il fascino di qualcosa che accade, di qualcosa di sospeso nell’aria, di previsto e imprevedibile al tempo stesso, di turistico e di quotidiano, di vita locale e di storia locale.

Treno e sleeper bus

Alla sera ho preso poi quel treno, incontrando un ragazzo polacco e un calciatore giapponese di una squadra della Mongolia. Arrivati a Erlian abbiamo dovuto attendere ore prima di poter prendere un bus, nel pomeriggio, dopo una notte quasi senza dormire tra controlli, soste brusche e fatica ad addormentarsi. Il ragazzo polacco era con me, ci sostenevamo a vicenda. Ancora adesso ricordo che mi aveva redarguito mentre ripetevo di non essere portata per le lingue: «ho studiato tanto» mi dice «dite tutti di non essere portati, ma io ho studiato tantissimo. Se studi le impari».
Sullo sleeper bus ho dormito ancora meno a causa del dondolio, della luce, i rumori, per via di un’agitazione tipica che mi coglie ogni volta che raggiungo una città di notte. Saremmo arrivati alle 2 o alle 3 di notte quando è buio e niente funziona. Saremmo arrivati a Pechino e avremmo preso un taxi per andare nei nostri rispettivi ostelli. Non ero sola e questo mi bastava, un poco: in fondo eravamo due sconosciuti che si sarebbero separati proprio all’arrivo in città. Magari avremmo pure litigato per il solo taxi disponibile alle due di notte. A metà viaggio il bus fa una sosta per la cena e per la pipì. Lo dico, della pipì, perché tra tutti i bagni visti al mondo – che forse ci potrei fare un piccolo vademecum – questo è stato fino a ora il più strano: quando entro faccio addirittura un piccolo balzo indietro accompagnato da un piccolo sospiro, come se avessi aperto la porta di un bagno occupato, per sbaglio. Non c’erano bagni singoli ma tante turche una accanto all’altra separate solo da un basso muretto alto mezzo metro o poco più. Le donne stavano tutte accucciate, a fare ciò che dovevano, incuranti delle loro vicine di turca. Ho osservato i visi abituati e ho fatto come loro, incurante, per quanto possibile, della vicina.

Perdersi di notte a Pechino

A un certo punto, proprio intorno all’ora di arrivo prevista, il bus si ferma. Pensavo in un’altra pausa e resto a letto: passano i minuti, passano i dieci minuti, passa forse anche mezz’ora. Sono in dormiveglia perché finalmente, senza sobbalzi né rumori, riesco a prendere sonno. Non ricordo se sono stata io a chiamare lui o lui a chiamare me, sta di fatto che a un certo punto abbiamo capito – il polacco e io – di essere semplicemente arrivati. Il bus si ferma e la gente – che a quell’ora non sa come spostarsi – può restare lì a dormire, proprio sul bus. Ero a Beijing, ero a Pechino. Ero in Cina per la prima volta. Chiamiamo o troviamo un tassista che prima porta lui e poi si prende in carico la sottoscritta. Quando io saluto il ragazzo polacco, so quasi per certo che sarebbe stata l’ultima volta. Sono tranquilla, sono su un taxi. Mostro di nuovo il foglietto della prenotazione fatta la sera prima e che riporta l’indirizzo: non ci sono numeri di telefono ma solo una via. Un indirizzo scritto sia in inglese sia in cinese. Il mio cellulare è ovviamente scarico. Il tassista non parla inglese. Arriviamo davanti a un ostello, mi scarica e chiedo la cortesia di attendere qualche minuto, per essere certa che fosse quello giusto. Entro, chiedo, cercano la mia prenotazione e guardano il foglietto sgualcito di booking: non è questo il posto. Quando esco sono costretta a inseguire il tassista che se ne stava andando. Risaliamo, prosegue, si ferma più volte in vari ostelli e scende lui a chiedere: dopo un po’ mi sembra di vederlo sudato, di sicuro era in ansia e di certo ha tentato più volte di piantarmi in asso.
Non ricordo tutto: ricordo che le mie spalle erano quasi fino alle orecchie, la testa incassata, il corpo rigido come legno. Erano le tre, poi le quattro. Poi troviamo l’ostello: non so come, non so in che modo ma lo troviamo. Sono io a urlare, a vedere l’insegna: «stop! Stop! It’s here!». Quando arrivo scopro che avrei dovuto attendere fino alle 14:00 per un mio errore nella prenotazione. Guardo l’ora, guardo il ragazzo alla reception e sento la mia mente urlare dal sonno: non dormo praticamente da due notti. Due notti. «Pago» gli dico. «Ho sbagliato a prenotare, lo so, ho capito: mi trovi un letto e pago una notte in più ma mi trovi un letto in qualsiasi camerata possibile». Lui si inalbera, sbuffa, io sono a pezzi, lui non è empatico come lo sono di solito i receptionist degli ostelli con le camerate miste. Finalmente mi trova un letto: «ma solo per stanotte» – sono le cinque – «domani alle 14:00 devi fare un altro check in». Entro in camera, poso lo zaino, le luci sono spente e negli altri letti la gente dorme. Salgo le scalette del letto a castello, forse srotolo il sacco a pelo – ma non ci giurerei – tolgo le lenti a contatto e dormo: vestita, sporca, senza mettere nemmeno un lenzuolo, su un materasso che non ho idea di come potesse essere.

Malesseri e ritorni

La mattina mi sveglio comunque presto perché ho solo quattro giorni. Solo quattro, mi dico, non posso sprecarli. Visito la città proibita soffrendo la stanchezza, il sonno, con le lacrime agli occhi e il passo lento, con la lingua di chi ha passato una notte a bere alcol, il sudore appiccicato ovunque, il bisogno di sedermi ogni cento metri. Ho le vertigini, la bocca impastata e – forse – la febbre: lo sento dai brividi e dal mal di testa. Nel mio camminare incontro il ragazzo polacco: ci diamo appuntamento l’indomani per andare insieme sulla muraglia partendo da una zona fuori città per evitare le folle di turisti, ma lui non arriverà mai o forse sono stata io ad arrivare in ritardo.
Ma ecco, sono di nuovo in quel locale: la mia mente torna lì. Sto entrando ed è la mia ultima sera: vorrei mangiare qualcosa di tipico per l’ultima volta, che poi è tutto tipico in qualsiasi ristorante, a meno che non sia per turisti. Lì di turisti non ce ne sono. C’è un ragazzo coreano da solo, seduto poco distante da me, che sta studiando cinese e che è a Pechino per l’Università. Il menù è in cinese, il personale parla solo cinese. Il ragazzo coreano e io decidiamo di unire le forze e di cenare insieme, lui con il suo cinese scarso e io con i miei gesti. «Voglio quello», mentre l’indice punta verso una specie di pentolone che ricorda il meccanismo della bourguignon francese: si immerge un alimento da cuocere in qualche sostanza bollente. Qui si tratta solo di acqua, di brodo. Ordiniamo le pietanze da cuocere semplicemente puntando dita contro scritte in cinese e sperando di indovinare. La scelta, purtroppo, non è delle migliori: carne non identificata, della verdura insapore e degli spaghetti altrettanto insipidi. C’è qualcosa di troppo forte, di intenso e asprigno, di eccessivo ma non riesco a capire: forse una salsa, forse il tipo di carne. Mangio poco, non mi piace, ma sono felice del mio commensale, dei tavoli in legno, del menù in cinese.
Sto per tornare a casa e so già che come sempre non lo vorrei fare, non vorrei andarmene mai. Qualche racconto l’ho lasciato indietro, per le prossime volte: per provare ancora quella nostalgia speciale, di qualcosa che non si è mai posseduto davvero, che si è vissuto solo in parte, che si vorrebbe rivivere o vivere per tempi più lunghi.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

I Viaggi di Eleonora:

Tutte le tappe del viaggio in Russia
Tutte le tappe del viaggio in Tanzania
Tutte le tappe del viaggio in Etiopia
Potete ascoltare il nostro notiziario quotidiano, a cura di Barbara Schiavulli, Paola Mirenda e Cecilia Ferrara con i Balkan Bullets

Ascolta anche:

E se credete in un giornalismo indipendente, serio e che racconta dai posti, potete sostenerci andando su Sostienici


[There are no radio stations in the database]