Il mondo in un bicchiere: il mercato globale del vino
Scritto da Pasquale Angius in data Agosto 2, 2021
Anche il mercato del vino si è globalizzato, vediamo un po’ di numeri e cerchiamo di capire come è avvenuto questo fenomeno.
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Il mercato globale del vino
Oggi parliamo del mercato internazionale del vino, perché ormai non soltanto i prodotti manifatturieri ma anche la gran parte dei prodotti agroalimentari sono diventati globali. Sul vino sono state scritte enciclopedie, è una bevanda molto suggestiva che ha una storia millenaria e che produce un giro d’affari enorme.
Partiamo da alcuni dati di sintesi pubblicati dall’Organizzazione internazionale del vino e della vigna, un ente intergovernativo di natura tecnico-scientifica che ogni primavera pubblica uno studio con i dati principali riguardanti l’andamento del settore vitivinicolo nell’anno precedente.
Per quanto il 2020 sia stato, a causa della pandemia da Corona Virus, un anno anomalo, il mercato globale del vino ha avuto contraccolpi meno negativi di quel che ci si poteva attendere. La produzione mondiale di vino nel 2020 è stata pari a 26 miliardi di litri.
Rispetto all’anno precedente, il 2019, la produzione è cresciuta dell’1%. Il 57% della produzione mondiale proviene dai paesi dell’Unione Europea con in testa quelli che possiamo definire le “superpotenze“ del vino cioè i tre principali produttori mondiali: Italia, Francia e Spagna. La produzione dell’Unione Europea è cresciuta dell’8% rispetto al 2019 che comunque era stato un anno tra i più scarsi a livello produttivo. In altre aree del mondo la produzione invece è calata, – 4% in Russia, -7% in Sudafrica, -11% negli Stati Uniti, -16% in Cina, -17% in Argentina, fino al -33% dell’Ucraina.
L’Italia nel 2020 è risultata al primo posto con una produzione di 4,91 miliardi di litri. Quindi all’incirca il 19% del vino prodotto a livello planetario proviene dall’Italia.
Il calo di consumi del vino
A livello di consumi invece c’è stato un calo di circa il 3% rispetto al 2019 con 23,4 miliardi di litri bevuti nel 2020. Considerando che nel 2020 ci sono stati in molti paesi periodi più o meno lunghi di lockdown, che interi canali commerciali, molto importanti per il consumo di vini, sono rimasti per lunghi periodi fermi, dalla ristorazione ai locali, agli alberghi, il dato non è particolarmente negativo. Quel che è successo è che i consumatori hanno acquistato quantitativi maggiori di vino nella GDO, la grande distribuzione organizzata, in pratica supermercati e ipermercati e c’è stato un vero e proprio boom delle vendite online. Quindi i minor consumi al ristorante sono stati compensati, in gran parte dai maggiori consumi in altri canali commerciali.
Va anche sottolineato che una parte consistente della riduzione dei consumi è da attribuire alla Cina dove sono calati del -17,4%, un calo che si è determinato soprattutto nella prima metà del 2020 quando nel paese furono adottate misure durissime di lockdown per fermare la pandemia.
Nell’Unione Europea i consumi nel 2020 sono stati pari a 11,2 miliardi di litri, in linea con quelli del 2019 con andamenti ondivaghi da un paese all’altro. In Spagna i consumi si sono ridotti del -6,8%, in Belgio del -3,1% in Ungheria del -10,3%, altri paesi invece hanno aumentato i consumi a cominciare dall’Italia dove sono cresciuti del +7,8%.
Anche fuori dall’Unione i consumi sono cresciuti in diversi paesi come nel Regno Unito del +2,2%, in Argentina del +6,5%, in Brasile del +18,4%.
Se invece guardiamo ai flussi commerciali e sommiamo tutte le esportazioni di tutti i paesi, queste nel 2020 hanno raggiunto la quota di 10,58 miliardi di litri con un calo del -1,7% rispetto al 2019 e un calo più consistente nei valori -6,7%.
Questo calo è stato determinato certamente dalla pandemia, soprattutto nella prima metà dell’anno i lockdown in molti paesi hanno ridotto le importazioni anche di vino. Ma a questo si sono sommati altri fattori negativi, le guerre tariffarie che hanno portato gli Stati Uniti a introdurre dazi sulle importazioni di vini da paesi come Francia, Spagna e Germania, per ritorsione nello scontro legale e commerciale tra le due aziende leader dell’aeronautica l’americana Boeing e l’europea Airbus. Ma ci sono stati anche i dazi cinesi sulle importazioni di vini australiani e non ultimo anche le incertezze della Brexit e delle nuove procedure che regolamentano gli scambi commerciali tra Londra e i 27 paesi dell’Unione Europea.
Ultimo dato che ricordiamo è che l’Italia è il primo esportatore mondiale con 2,08 miliardi di litri che rappresentano all’incirca il 20% delle esportazioni globali di vino in volume, anche se rispetto al 2019 abbiamo avuto un calo del -2%.
Dopo aver visto un po’ di dati cerchiamo di capire come ha fatto il vino, negli ultimi 30-40 anni a diventare un prodotto globale.
Il processo di globalizzazione del vino
Fino agli anni Settanta del Novecento il vino era un prodotto tipicamente europeo che si produceva e si consumava nei paesi europei a cominciare da quelli mediterranei. Fuori dall’Europa il vino era un prodotto esotico che si trovava nei ristoranti degli alberghi di lusso, soprattutto i vini e gli champagne francesi, e che si consumava anche in paesi dell’America Latina come Cile e Argentina dove c’era una forte comunità di immigrati dall’Italia e dalla Spagna o in paesi anglosassoni come Stati Uniti, Canada, Australia, dove c’erano comunità di immigrati provenienti dai paesi mediterranei.
Il vino, come sappiamo, non si può produrre dappertutto ma soltanto nella fascia temperata sia dell’emisfero boreale che di quello australe. Man mano che ci si avvicina all’Equatore e man mano che ci si sposta verso i poli le condizioni climatiche diventano proibitive per la coltivazione della vite. Ma ciò non significa che la coltivazione della vite si possa fare soltanto nei paesi mediterranei ed europei.
Fino agli anni Ottanta inoltre c’erano degli ostacoli oggettivi agli scambi commerciali, dazi doganali elevati e altre barriere non tariffarie. Inoltre i costi di trasporto erano ancora elevati. Le bevande sono pesanti da trasportare e allo stesso tempo sono prodotti delicati, facilmente deperibili, per esempio per il vino sbalzi eccessivi di temperatura potrebbero danneggiare il prodotto.
Ma proprio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta in alcuni paesi extraeuropei dove la domanda di vino stava crescendo, alcuni imprenditori e alcune grandi aziende del settore agroalimentare cominciano ad investire nella produzione vitivinicola. In paesi come Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Cile, Argentina, Sudafrica, quel gruppo di paesi che sono stati definiti il “Nuovo Mondo”, in contrapposizione con il “Vecchio Mondo”, rappresentato dall’Europa, si impiantano viti e si costruiscono grandi impianti industriali per la lavorazione del vino. L’obiettivo è chiaro, sfruttare alcuni vantaggi competitivi che quei paesi hanno per cominciare a far concorrenza ai vini europei. Ma quali erano questi vantaggi? Per esempio la disponibilità di vaste estensioni di terre a costi bassi, un minor carico fiscale, regolamentazioni del settore più lasche e vaghe rispetto a quelle europee, mancanza di vincoli stringenti di natura geografica o tecnica come esistevano nei paesi europei per le denominazioni di origine, dimensione media delle aziende più ampia e quindi possibilità di sfruttare economie di scala sia a livello produttivo che distributivo.
E qui si innesca anche un grande dilemma e un grande scontro tra filosofie produttive diverse, perché diversi sono i contesti geografici e storici e diversi sono anche gli interessi.
Lo scontro è tra coloro che pensano che il vino, in fine dei conti possa diventare un prodotto come tutti gli altri, una commodity, cioè un prodotto standardizzato, realizzato con criteri di tipo industriale dove alla fine la competizione tra i vari produttori si realizza sul prezzo. Chi riesce ad essere più efficiente a livello produttivo riuscirà ad avere costi di produzione più bassi, potrà quindi avere prezzi più bassi e conquistare quote di mercato.
Dall’altro lato ci sono coloro che invece sposano la filosofia del “terroir” per usare un termine francese. Terroir vuol dire territorio e significa che il vino non è e non può essere un prodotto indifferenziato e standardizzato, non può essere una commodity. Le caratteristiche e la qualità del prodotto vino dipendono da una combinazione complessa di fattori: terreno, paesaggio, microclima, livello delle precipitazioni, esposizione solare, tecniche di coltivazione, pratiche enologiche, tutti elementi che si combinano assieme in una maniera unica e irripetibile che danno al vino di ogni territorio, di ogni vigna il suo carattere specifico. Il vino non è un semplice prodotto industriale ma affonda le sue radici nel territorio da cui proviene, veicolando aspetti culturali e sociali in un intreccio virtuoso tra ambiente, storia, arte, tradizioni e gastronomia. Questo fa sì che il vino sia molto più simile ad un prodotto di alto artigianato più che ad un prodotto industriale.
La filosofia del terroir
Ora la filosofia del “terroir” si sposa a pennello con quelle che sono le caratteristiche della viticoltura europea soprattutto francese ed italiana. Aziende di dimensione medio-piccola, grande varietà di vitigni coltivati e grande varietà di vini prodotti, carico fiscale più elevato, regole di produzione piuttosto rigide per i vini con denominazioni particolari, un sistema distributivo più complesso e articolato, una competizione che si basa non tanto sul prezzo quanto sulle caratteristiche particolari del prodotto.
Si tratta per certi aspetti della vecchia diatriba tra quantità e qualità che talvolta ha un suo fondamento, talaltra diventa quasi più una questione accademica se non addirittura ideologica, la realtà poi è sempre più complessa degli schemi e quindi non ha senso prendere posizioni aprioristiche. Puntare sulla qualità è generalmente una strategia vincente ma ci possono essere condizioni di mercato o situazioni aziendali nelle quali orientarsi su produzioni più standardizzate può essere una strategia fondata.
A partire dalla fine degli anni Ottanta inizia la nuova globalizzazione di cui abbiamo parlato in alcuni podcast precedenti. Quello che succede anche nel mercato del vino è un maggiore liberalizzazione degli scambi. Vengono eliminati o ridotti molti dazi doganali, ma anche quote e contingenti e semplificate altre procedure come quelle di carattere sanitario. Aumentano gli scambi e si riducono sensibilmente i costi dei trasporti.
L’omologazione dei modelli di consumo
La globalizzazione inoltre porta a una tendenziale convergenza ed omologazione dei modelli di consumo. Le classi medie dei paesi in via di sviluppo cominciano ad imitare i modelli di consumo dei paesi sviluppati e cominciano a conoscere ed apprezzare una bevanda come il vino.
In Cina, per esempio, ma il discorso vale per molti altri paesi, il vino che è estraneo alle loro tradizioni gastronomiche, diventa un consumo di status. Nella nuova Cina che si sviluppa seguendo il motto di Deng Xiao Ping per cui “arricchirsi è glorioso”, chi riesce a far soldi la prima cosa che fa è quello di farlo sapere a tutti. Il modo migliore per far sapere a parenti, amici, conoscenti e sconosciuti che ci si è arricchiti è quello di assumere modelli di consumo da “ricchi”. Il vino che, all’epoca, in Cina veniva tutto importato ed era molto costoso diventa un tipico consumo da arricchiti, l’ostentazione di consumi costosi a conferma del nuovo status sociale raggiunto. Le importazioni di vini pregiati, in prevalenza francesi e di champagne, decollano.
Allo stesso tempo nei paesi europei soprattutto i maggiori produttori, Italia, Francia e Spagna, i consumi interni di vino sono in costante calo. Le ragioni sono in prevalenza di natura sociale e culturale. Le società europee sono ormai società industriali avanzate, società del terziario, il peso del settore agricolo è ridotto, la maggioranza della popolazione vive nei grandi agglomerati urbani e il vino non è più, come era stato per secoli, un alimento, una componente essenziale della dieta mediterranea, ma il suo consumo diventa sempre più un consumo di tipo voluttuario ed edonistico. Si consuma sempre meno vino duranti i pasti ma aumentano i consumi nei ristoranti, nei locali, per gli aperitivi. Si riducono le quantità ma si cercano vini di maggior pregio. Per fornire un dato significativo basti pensare che attualmente in Italia si consumano all’incirca 37,5 litri di vino pro capite all’anno ma negli anni Settanta del Novecento i consumi erano pari a 120 litri all’anno. Fenomeni identici sono accaduti anche negli altri paesi europei mettendo i produttori di vino nella necessità di trovare nuovi sbocchi commerciali all’estero per le loro produzioni che erano, a quel punto, eccessive per il mercato nazionale.
A partire dagli anni Novanta il mercato del vino esplode a livello globale. Da un lato i produttori europei sono spinti a cercare nuovi mercati per i loro prodotti, dall’altro anche i paesi del cosiddetto Nuovo Mondo che hanno migliorato la qualità cercano sbocchi commerciali all’estero. L’aumento dell’offerta trova d’altro lato una crescita costante della domanda. In molti paesi asiatici, dalla Corea, al Giappone, a Taiwan, a Singapore, massicce campagne di marketing fanno conoscere ed apprezzare il vino, una bevanda alcolica più raffinata e delicata rispetto ai vari tipi di grappe di riso o prodotte da altri cereali, molto diffuse in quei paesi. Inoltre il vino pare abbia, se consumato in maniera moderata e responsabile, effetti benefici sulla salute.
Ma in alcuni paesi asiatici il vino oltre che consumarlo si comincia anche a produrlo, lo si fa in Giappone e in India, ma lo si fa soprattutto in Cina. La Cina è oggi uno dei maggiori produttori di vino a livello mondiale, è il terzo paese al mondo per superficie vitata, cioè per terreni coltivati a vigne, nel 2020 ha prodotto circa 660 milioni di litri di vino, e ne ha consumati 1,24 miliardi di litri. Certamente la qualità dei vini cinesi non è paragonabile a quella dei vini italiani o francesi ma sappiamo che i cinesi sono gente sveglia e imparano in fretta.
Sul vino torneremo prossimamente perché è un argomento molto vasto ma in chiusura vediamo alcune particolarità del mercato globale.
La religione islamica sappiamo che proibisce il consumo di bevande alcoliche e quindi anche di vino ma la situazione dei paesi islamici è molto variegata, anche perché alcuni paesi dell’area mediterranea, sono, dall’epoca dell’Impero romano produttori di vino, basti pensare a Marocco, Algeria, Tunisia, Turchia. In questi paesi il settore vitivinicolo, per quanto fortemente ridimensionato per non urtare la sensibilità dell’opinione pubblica islamica più ortodossa, è comunque in crescita come in crescita sono anche i consumi.
In alcuni paesi islamici più oltranzisti come Arabia Saudita, Sudan, Pakistan, il vino è semplicemente proibito. In paesi come gli Emirati Arabi il consumo di vino è consentito ma soltanto ai non islamici che per poterlo acquistare debbono farsi rilasciare apposita licenza dalle autorità di polizia. In paesi come la Malesia o l’Indonesia i consumi sono in forte crescita anche se le statistiche ufficiali stentano a dar conto del fenomeno sempre per non suscitare le lamentele dell’opinione pubblica islamica.
Nei paesi scandinavi, con l’unica eccezione della Danimarca, le vendite di prodotti alcolici e quindi anche di vino sono fortemente regolamentate e controllate da monopoli statali. In quei paesi, storicamente, uno dei problemi sociali più gravi è l’alcolismo e quindi in sostanza per una ragione di salute pubblica si sono introdotte sia tassazioni molto elevate sugli alcolici come anche il monopolio statale sulle vendite. In realtà poi col tempo, dati gli elevati consumi quei monopoli sono diventati una fonte importante di entrate fiscali e quindi poi diventa difficile capire dove stia il confine tra tutela della salute pubblica e tendenza a conservare una fonte importante di entrate fiscali.
Chiudiamo con un aforisma attribuito allo scrittore tedesco Wolfgang Goethe il quale pare disse: “la vita è troppo breve per bere vini mediocri.” Difficile dargli torto!
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