Ucraina. In fuga: storie di sopravvissute a Bucha e Hostomel
Scritto da Julia Kalashnyk in data Aprile 9, 2022
Bucha, Hostomel, Irpin, Borodyanka: piccole città nei pressi della capitale ucraina Kyiv, teatro delle atrocità compiute dai russi, che hanno scosso il mondo intero, nei confronti della popolazione civile. Le autorità ucraine stanno ora raccogliendo i corpi dalle strade e c’è un’enorme probabilità che ne verrano fuori ancora di più: quelli che ancora restano nelle case, sotto le macerie, nei cortili e negli scantinati. La raccolta di testimonianze sui crimini compiuti dall’esercito russo è appena iniziata, anche se Mosca continua a negare: «Sono tutte bugie, una messa in scena», dice, nononstante le prove.
A piedi da Hostomel
Hostomel ha vissuto sotto l’occupazione russa per 35 giorni: è stata liberata solo il 2 aprile. Qui ci sono state aspre battaglie fin dal primo giorno, dopo l’invasione russa del 24 febbraio scorso. Da lì arrivano immagini terribili: edifici dimezzati, distrutti; strade disseminate di auto bruciate − o quello che ne rimane: carcasse rossicce, mangiate dal fuoco − e mezzi militari a pezzi, assieme ad autobus civili. Nel luogo dell’aeroporto distrutto di Hostomel ci sono i resti di quello che era una volta il più grande aereo del mondo, l’Antonov An-225 Mriya. Cadaveri ovunque e i cortili residenziali tempestati di tombe, con le croci fatte da quei pochi abitanti rimasti.
Nina Yakivna, 66 anni, è di Hostomel. E tutti gli orrori li ha visti con i propri occhi. Originaria della regione di Luhansk, ha dovuto abbandonare casa sua nel 2014. Ora la stessa guerra l’ha raggiunta per la seconda volta. «Conosco cosa sia l’occupazione russa, la conosco già da otto anni», ci dice. Quando i russi hanno invaso Nina si trovava a casa. Nel seminterrato del suo condominio di due piani, un ostello è stato trasformato subito in un rifugio per chi, nel vicinato, non è riuscito a scappare. Lì tutti assieme trovavano rifugio dalle bombe. «Esplosioni continue, di diverso tipo. Il cielo ronzava e tutto si mescolava al fuoco e al fumo. Le peggiori esplosioni erano quelle in cui tremava il terreno», ricorda Nina Yakivna pensando alla sua permanenza a Hostomel.
Uscire fuori era impossibile. La vita per strada non esisteva. Tutto intorno fumava, puzzava di bruciato. Poi la situazione è precitata ancora di più: dopo qualche giorno sono andate via la luce, il riscaldamento e l’acqua. Fuori faceva freddo, nei vari scantinati dove si nascondevano gli abitanti di Hostomel il gelo penetrava fino alle ossa. «Quando è caduta la neve abbiamo iniziato a raccoglierla in secchi, per poi scioglierla e avere l’acqua», ricorda Nina Yakivna.
In quei rari momenti, quando era possibile uscire fuori dal seminterrato, la gente si radunava nel cortile dell’ostello per condividere le notizie. Per avere notizie da altre parti della città si scrivevano con gli abitanti di Bucha via Messenger. A volte qualche uomo si allontanava per capire cose stesse succedendo sulle altre strade. Nina Yakivna parla di persone uccise a colpi d’arma da fuoco nelle loro auto abbandonate per la via vicino a casa sua: impossibile avvicinarsi per aprirle, perché i russi le minavano e mettevano dell’esplosivo.
«La prima settimana l’occupazione non è stata totale e i russi sparavano soprattutto alle auto con dentro delle persone continuando a distruggere tutto in città. Poi abbiamo saputo che stavano arrivando i Kadyrovtsy», esclama, riferendosi ai gruppi di combattenti ceceni creati dal sanguinario leader Ramzan Kadyrov, fervente sostenitore di Putin.
E poi è arrivato il momento di scappare. Suo figlio fa diversi tentativi per portarla via da lì: tutti falliti per via dei pesanti combattimenti in corso. Così Nina Yakivna decide di andare a piedi a Irpin per incontrare suo figlio lì, al primo posto blocco ucraino vicino. Il 2 marzo la donna percorre 5 chilometri, sotto i fischi dei combattimenti, per potersi mettere in salvo.
Una volta incamminata, vede che sulla sua strada le case sono state scassinate e saccheggiate dai russi, mentre chi le abitava si nasconde nello scantinato dell’ostello. L’autostrada, invece, è tempestata di auto civili bruciate e mezzi militari russi devastati. Il ponte distrutto. E in lontananza si muove una colonna militare delle forze russe. Nina Yakivna si affretta cercando di tranquillizzarsi e pensando: «Per prendermi con una mitragliatrice sono troppo lontani, e di certo non sprecheranno un cannone di un carro armato per uccidere una nonna come me».
Poi incontra il sindaco di Hostomel, che insieme a due uomini stava caricando sull’autobus dell’acqua in bottiglie per portarla alla popolazione. «Il solo vederli mi ha risollevato l’animo», dice. Poi arriva a destinazione e sale sulla macchina di suo figlio. E qualche giorno dopo scopre che il sindaco è stato ucciso dagli invasori. E che lei se l’è cavata per un soffio.
Sopravvissuti da Bucha
Uno scenario diverso, ma non meno agghiacciante, è quello vissuto anche Margarita, 52 anni, abitante di Bucha, dove la popolazione civile ha subito atrocità senza precedenti da parte dei russi. Il 24 febbraio la donna si sveglia a causa delle urla del marito: «Rita, alzati, la guerra è iniziata!» «Corriamo sul balcone e vediamo gli elicotteri russi in volo, le persone in preda al panico con figli e bagagli. Non se ne stavano andando: stavano scappando», ricorda.
Allora si poteva ancora arrivare a Kyiv, con la macchina oppure anche a piedi, sebbene camminando per un giorno intero. La coppia però decide di restare, assieme al loro cane. Pensano che le truppe russe di certo non si fermeranno a Bucha, ma si sposteranno altrove. Ma tutto precipita in un istante. Il rumore dei jet da combattimento sulle loro teste, le forti esplosioni fino a far sobbalzare le case. Nel palazzo vicino c’è un rifugio, dove si è radunata buona parte del vicinato. Un’altra parte della popolazione si è nascosta nel rifugio antiaereo di una scuola materna. E poi bombardamenti continui, bombe, spari. Si deve pensare alla sopravvivenza, perché a quel punto non c’è più né luce, né gas, né acqua. Poi il gelo.
«Noi, quando passavamo la notte in casa, dormivamo nel bagno, sempre vestiti, persino con le scarpe. Per il gelo, per i bombardamenti. Avevamo tanta paura», ci racconta Rita. Cucinavano sul fuoco nel cortile, razionando le scorte, e le donne confezionavano razioni di cibo per ciascuno, offerto dai negozianti nei primi giorni di guerra. «Solo 100 grammi di pane a testa», dice Rita.
Anche qui gli uomini provano a vedere cosa sta succedendo nelle strade vicine, tornando quasi sempre con una storia orribile. «Una volta è venuto il vicino dicendo che una delle strade era disseminata da mezzi militari russi bruciati. E attorno i cani che mangiavano dai cadaveri dei soldati». E poi è arriva la notizia che i soldati russi avevano sparato e ucciso una donna che stava attraversando la strada correndo, con dei bambini. Rimanere a Bucha è sempre più pericoloso: i russi non avrebbero risparmiato la popolazione civile. Partire è necessario. Dopo un tentativo di evacuazione in autobus il 9 marzo, fallito, la fortuna sorride a Rita: trova posto in una delle auto che partono per Kyiv.
«E così ci muoviamo in una colonna di 30 macchine. Sembrava di essere all’inferno: tutto stava bruciando, tutto era in fiamme. E io pregavo. Non avete idea di cosa voleva dire passare anche solo un giorno a Bucha», sospira. Il marito, col cane, è scappato il giorno dopo. Il 12 marzo − hanno poi saputo − i russi avevano sparato contro gli autobus, a bordo dei quali stavano evacuando i civili, nella regione di Kyiv, uccidendo adulti e un bambino. «Le mie preghiere ci hanno protetti in qualche modo», conclude.
Anche Vika, 29 anni, voleva scappare: ma è riuscita a lasciare Bucha solo il 22 marzo. Passando tutto quel tempo nello scantinato, al freddo, cucinando il cibo sul fuoco davanti al palazzo. La presenza dei russi si sentiva: spaccavano le vetrine dei negozi e poi saccheggiavano tutto: negozietti, mercati. «Si ubriacavano e poi via, distruggevano tutto», ci dice. E raccoglievano informazioni sugli attivisti, cercavano scantinati con bambini. «Per fortuna non si sono fatti vedere nei nostri rifugi. I miei parenti di Hostomel invece hanno visto violenze e torture. Anche su bambini», racconta.
Il suo unico incontro con un soldato russo è avvenuto sotto casa sua. Era seduto su una panchina, rannicchiato, fumando una sigaretta. Vestito male, indossava scarpe leggere. Vika si è avvicinata e gli ha chiesto: «Ma tua madre sa cosa stai facendo qui? Sa dove ti trovi?” E la classica risposta, quella della propaganda russa: «Pensa che io sia a delle esercitazioni. C’era una missione per prendere Kyiv in tre giorni. Siamo venuti qui per liberarvi». Ma liberare, poi, da chi?
Foto in evidenza e articolo: Office of President of Ukraine / archivio personale di Nina Yakivna.
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