La maledizione del coronavirus per 71 milioni di profughi

Scritto da in data Aprile 14, 2020

La mancanza di acqua rende impossibile il mantenimento di un livello minimo di igiene e il sovraffollamento che non permette il distanziamento sociale, rischia di portare la pandemia di coronavirus a livelli incontrollabili.

Per i 70,8 milioni di sfollati forzati in tutto il mondo – 2,6 milioni di loro intrappolati in campi sovraffollati senza servizi igienico-sanitari adeguati – le misure preventive di base contro COVID-19 come il distanziamento sociale e il frequente lavaggio delle mani sono quasi impossibili.

Prima dell’attuale crisi, i rifugiati, gli sfollati interni, i richiedenti asilo e gli apolidi erano già le popolazioni più vulnerabili del mondo. Ora rischiano di soffrire della pandemia globale con un tasso senza precedenti.

Le organizzazioni umanitarie che sostengono queste popolazioni, si trovano a lavorare in un territorio sconosciuto, dovendosi adattare rapidamente alla situazione sanitaria in costante cambiamento senza contare il deterioramento delle condizioni economiche e le restrizioni più severe sulla libertà di movimento in ogni paese.

I campi profughi greci per esempio sono in blocco , con l’ UNHCR o le autorità nazionali che consentono l’entrata solo agli operatori sanitari o addetti alla distribuzione alimentare. Tutti gli altri operatori umanitari internazionali e locali devono escogitare altri e nuovi modi per continuare a fornire servizi regolari, adottando misure specificamente volte a limitare la diffusione del coronavirus.

Agli operatori internazionali di solito che fanno base nei posti caldi, è stato richiesto di evacuare e tornare nei loro paesi di origine, di lavorare a distanza utilizzando la tecnologia per quanto possibile.

Quello che si sono trovati ad affrontare, di fatto è qualcosa di nuovo. Un fenomeno globale mutevole, dove quindi è difficile stabilire le priorità, soprattutto per le organizzazioni che hanno missioni sparse in tutto il mondo, ognuna delle quali con problemi diversi insieme a quello principale del virus.

Le sfide poste dalla pandemia all’interno delle comunità di rifugiati, sfollati interni e richiedenti asilo sono una miriade. La mancanza di accesso all’acqua pulita, ai servizi igienico-sanitari e al sapone è solo l’inizio. Ad esempio, a Moria, il più grande campo profughi di Lesbo, in Grecia, è stato costruito per poco più di 3.000 persone. Ora è abitato da 20.000 persone e secondo quanto riferito, ha un rubinetto per 1.300 persone, un bagno per 167 e una doccia per 242.

Poco accesso all’acqua anche nel campo profughi di Kakuma e dell’insediamento integrato di Kalobeyei nel nord-ovest del Kenya, per fare un altro esempio. Il campo ospita 194.000 rifugiati, principalmente dal Sud Sudan.

L’accesso al sapone e al disinfettante per le mani è un lusso. E le persone devono fare la fila per accedere all’acqua pulita, quindi è quasi impossibile far rispettare le distanze sociali.

Spostandosi al confine meridionale con gli Stati Uniti, ci sono migliaia di persone costrette ad aspettare dall’altra parte del confine in accampamenti di fortuna in Messico, che vivono in tende con scarsa igiene e distanza, il che li porta ad una maggiore esposizione al virus.

La mancanza di informazioni

Mentre in molti paesi occidentali si è stati bombardati di informazioni e aggiornamenti sulla prevenzione COVID-19 attraverso i media, per molte popolazioni di rifugiati non è arrivato nulla. In alcuni campi profughi, come Kakuma, a 16 ore di auto da Nairobi, sono estremamente rare le informazioni. Sebbene quasi tutti i rifugiati in Europa abbiano smartphone e un relativo accesso a Internet, molti altri no. Anche tra le famiglie di rifugiati in Europa, non tutti i membri dispongono di telefoni e molti non possiedono computer portatili. Nonostante gli sforzi per educare a evitare il contagio, una volta che il virus entrerà nei campi profughi, dilagherà.

“Se pensiamo che questo sia un grosso problema negli Stati Uniti e in Europa, non abbiamo ancora visto nulla se COVID entrerà nella popolazione dei rifugiati”, ha detto al New York Times Adam Coutts, un ricercatore di sanità pubblica dell’Università di Cambridge . Coutts ritiene che il virus si sia già infiltrato in alcuni campi profughi e spesso i campi e i loro paesi ospitanti non sono attrezzati per gestire le epidemie.

Combattere l’insicurezza alimentare, ma anche sanitaria ed educativa

Le organizzazioni umanitarie internazionali e locali stanno facendo il possibile per ottenere forniture mediche, in particolare dispositivi di protezione individuale per il personale medico. Stanno anche cercando di colmare le lacune identificate dai partner sanitari nei campi. Ad esempio, a Kakuma devono affrontare la malaria durante la prossima stagione delle piogge da aprile a giugno e la malnutrizione è un problema tra i bambini sotto i cinque anni a causa della siccità. Entrambi questi fattori scavalcherebbero un eventuale focolaio di COVID-19.

In Ecuador si sta lavorando con i supermercati locali per organizzare il cibo per i rifugiati dal Venezuela e dalla Colombia.

In Grecia, i programmi di supporto educativo e psicosociale sono stati trasferiti online utilizzando una varietà di piattaforme di social media, tra cui YouTube, Instagram, Facebook Messenger, Google Forms e WhatsApp. E se è stressante per noi, che stiamo comodi chiusi a casa, cosa deve essere per chi vive già una situazione di stress post traumatico a causa delle ragioni per le quali si diventa un profugo o uno sfollato?

Un altro pericolo per le comunità di rifugiati in alcune parti del mondo sono le affermazioni che loro e altre popolazioni emarginate siano responsabili della diffusione di COVID-19. (Studi dimostrano che non è così.)

Era successo in Liberia quando si era diffusa l’Ebola, e ora di nuovo con COVID-19. E’ un momento pericoloso per le minoranze che spesso vengono prese di mira falsamente soprattutto da fenomeni populisti, xenofobi o razzisti.

Una cosa è certa, e sembra mettere d’accordo tutte le organizzazioni umanitarie: quando finalmente COVID-19 si placherà, sarà necessario rivalutare il funzionamento dell’umanitario poiché la nuova realtà causata dalla pandemia richiederà in futuro approcci diversi.

La domanda è: cosa è cambiato a questo proposito e cosa cambierà per sempre? Lo si potrà capire solo quando gli operatori potranno uscire dai loro schermi e riandare sul campo. Senza contare che il lavoro degli operatori umanitari in buona parte, è basato sulla fiducia che si instaura con l’assistito. Poi viene tutto il resto. E se questo contatto faccia a faccia, mano nella mano, sorrisi e lacrime che si condividono, andasse perso per tanto tempo, la perdita potrebbe essere umanamente inestimabile.

Foto di copertina: © UNICEF Sokol

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