In memoria dello tsunami
Scritto da Paola Mirenda in data Dicembre 26, 2019
Aveva la patente nelle tasche dei pantaloni, Sri Yunida, quando nel dicembre dello scorso anno il suo cadavere è emerso, avvolto in un sacco nero, da una fossa comune mai registrata a Kajhu, Banda di Aceh, Indonesia. Assieme a lei erano state seppellite altre 44 persone, tutte vittime del terremoto e dello tsunami del 2004. Ora Sri, quindici anni dopo, ha una tomba. Ma nelle fosse comuni dei 14 Paesi colpiti in quel giorno restano ancora centinaia di corpi da identificare. Nel frattempo si sono aggiunti quelli degli altri terremoti e degli altri tsunami che hanno continuato a devastare questo spicchio di mondo tra l’Oceano e l’inferno, nell’Anello di fuoco del Pacifico.
L’Indonesia è stato il Paese più colpito il 26 dicembre del 2004, quando un terremoto di magnitudo 9,2 provocò la più grande ondata d’acqua mai registrata e in grado di raggiungere, dall’Asia, le coste africane del Kenya e della Somalia. I morti, in un conto sempre approssimativo in casi come questo, furono 230mila. Di questi, 170mila nella sola Indonesia. Banda Aceh fu una delle zone più colpite. Rimasero senza nome e spesso senza sepoltura le migliaia di lavoratori irregolari venuti dal Myanmar, i senza tetto, gli abitanti dei villaggi completamente spazzati via di cui non c’era memoria nemmeno nei registri anagrafici e nessuno che potesse ricordarne la vita.
Oggi, secondo i dati del governo, il 62,4 percento della popolazione vive ancora in zone a rischio terremoto, e l’1,6 per cento – ma la cifra sembra sottostimata – in zone potenzialmente letali in caso di tsunami.
L’ultimo terremoto di una certa ampiezza è stato appena un mese e mezzo fa, a metà novembre. L’ultimo in ordine di tempo è stato il 26 dicembre, alle 14.22 ora locale. Ed è stato solo l’ennesimo di una lunga serie. Certo, in nessun caso il numero delle vittime è stato così alto come nel 2004, ma questo non è da attribuire tanto alle migliorate capacità di risposta quanto alla minore violenza degli eventi. Lo scorso anno, in occasione dello tsunami che aveva colpito lo stretto di Sunda (il 23 dicembre 2018), era emerso chiaramente che le misure intraprese nella prevenzione dei disastri e per una risposta immediata non erano sufficienti. Su mille sirene di allerta tsunami che sarebbero necessarie in Indonesia, solo 56 erano all’epoca in funzione, raccontava alla Reuters Sutopo Nugroho, portavoce della National Disaster Agency (BNPB). Non solo: non c’era stata abbastanza prevenzione nel capire che uno tsunami non è causato solo da un terremoto, ma anche da una potente eruzione vulcanica come nel caso in questione.
Anche nel caso di terremoti (settembre 2018, Sulawesi, oltre 2mila morti e altrettanti dispersi) non è detto che l’allerta arrivi tempestiva: delle 22 boe in alto mare che segnalano l’arrivo di onde anomale, molte sono danneggiate a causa di atti vandalici. Le boe erano state perlopiù donate tra il 2005 e il 2009 da Paesi esteri nell’ambito delle azioni di solidarietà post-terremoto, ma tra i danneggiamenti e gli alti costi di manutenzione hanno smesso di essere in funzione già nel 2012. In occasione della presentazione dei dati relativi al primo trimestre del 2019, il Bnpb avvertiva che l’Indonesia aveva forse migliorato le proprie capacità di risposta dopo il disastro, non quelle di prevenzione.
Il programma di sensibilizzazione nelle scuole è stato avviato ma procede con lentezza e molti insegnanti lamentano di non aver avuto mai istruzioni su cosa fare in caso di allarme; i centri di fuga costruiti per ospitare il maggior numero di persone in caso di tsunami – solidi, in cemento armato, con il piano inferiore aperto per far defluire le acque – a volte sono in completo disuso per mancanza di manutenzione, incuria, incapacità di gestirli nel “tempo di attesa” per un loro eventuale utilizzo. Mancano ancora piani urbanistici che spostino il centro vitale dalla costa verso le zone appena più interne, lasciando tra il mare e la vita quotidiana quella fascia necessaria alla sopravvivenza. In particolare, questo manca per le infrastrutture pubbliche, per gli edifici governativi, per le scuole.
Eppure, a quindici anni di distanza, il bilancio che tutti tracciano sembra positivo.
Banda Aceh ha ripreso a vivere, il 26 dicembre è quest’anno festività ufficiale. Insieme gli abitanti hanno commemorato l’anniversario, si è pregato nella moschea, l’unica struttura all’epoca rimasta intatta. Le zone più colpite sono state trasformate in località commemorative, visitate dai turisti che incrementano l’economia: il Museo dello Tsunami a Banda Aceh accoglie ogni anno migliaia di persone. Anche altrove è così: nello Sri Lanka, dove lo tsunami ha fatto 30mila morti, è Peraliya il simbolo della tragedia. Qui, dove l’onda ha colpito un treno sovraffollato uccidendo 1.500 persone, le autorità srilankesi hanno eretto una statua di Buddha in ricordo; memoriali sono sorti in Thailandia, come quello di Ban Nam Khem, un villaggio di pescatori che ha perso metà dei suoi abitanti.
Il progetto iniziale di vietare la ricostruzione dei villaggi troppo vicino alla costa si è scontrato da un lato con l’eccesso di burocrazia e la mancanza di fondi, dall’altro con le abitudini consolidate di una vita passata a convivere con l’acqua. Un interessante report a dieci anni dallo tsunami dava conto della ricostruzione e dei problemi che aveva comportato, nonché delle diverse soluzioni adottate. Oggi si costruisce di nuovo sulla costa, e non solo “in sicurezza”. Restano, come simbolo di un tentativo di convivenza degli essere umani con l’ambiente, le distese di mangrovie, barriere naturali contro la violenza dell’acqua. Il 26 dicembre, quindici anni dopo, una nuova generazione di ragazzi si è ritrovata per piantarne ancora.
Photo credit: Tsunami 2004 aftermath. Aceh, Indonesia, 2005. Photo: AusAID su licenza CC BY 2.0
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