Mostar, una città divisa

Scritto da in data Agosto 29, 2019

Mostar è una città divisa. Le sue parti ovest (a maggioranza croata) ed est (popolata da bosniaci musulmani) si fronteggiano da secoli dalle due sponde del fiume Narenta. Storicamente, culturalmente, l’una opposta all’altra collegate solo un ponte antichissimo, chiamato appunto “Stari Mostar”, “ponte vecchio”. Quel ponte, da sempre simbolo e allegoria della città, il 9 novembre del 1993 ha pagato il prezzo di una guerra spietata crollando sotto il peso delle bombe lanciate da mercenari travestiti da soldati.

A cura di Francesca Giannaccini per Radio Bullets

Bosnia

Le immagini della sua distruzione, girate da Zaim Kajtaz, sono state trasmesse dai telegiornali di mezzo mondo, segnando l’ennesima indelebile macchia nello sviluppo tragico della guerra nei Balcani.

Mostar è ancora una città divisa. Il vecchio ponte, ricostruito nel 2004 grazie alle sovvenzioni internazionali e soprattutto italiane, ha trasformato questa piccola città al confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina in un’attrazione turistica patinata. È la prima cosa che noto quando arriviamo. È sera ma la luce della strada fatta di ciottoli tirati a lucido, mi abbaglia. Intorno è un brulicare di piccoli bazar che vendono gadget e cianfrusaglie arabeggianti, persone che si scattano foto con il bastone da selfie. Ma basta uscire dal recinto targato patrimonio dell’Unesco per rendersi conto che esiste un’altra città, divisa nei suoi tanti piccoli quartieri. Ognuno con la sua gente, ognuno con la sua storia.

Giornalisti al fronte

Quella notte non ho dormito. Avevo letto della storia di tre giornalisti italiani, uccisi da una granata mentre realizzavano un servizio sui bambini figli della guerra. Era il 28 gennaio del ’94, il ponte era crollato da qualche mese, raggiungere Mostar est sembrava impossibile. Ma Marco Luchetta, Alessandro Sasha Ota e Dario D’Angelo si trovavano l¡, in un cortile su cui si affacciano intorno condomini e case popolari. Avevano sentito dire che nelle cantine di quegli edifici si rifugiavano famiglie, madri e figli soli. Volevano incontrarli, dare eco alle loro vite, non si sarebbero accontentati di un’unica versione della vicenda. Volevano raccontare quella diversità, quella divisione, che caratterizza Mostar, ieri come oggi.

Anche la politica tuttora risente fortemente degli stralci della guerra. Lujbo Belsic, rappresentante del partito croato HDZ, è sindaco da 16 anni, regolari elezioni amministrative non si svolgono da 10. Il consiglio comunale, non riuscendo a raggiungere un accordo sulla legge elettorale, è in stallo. Est e ovest non dialogano, irremovibili nel proprio dolore e orgoglio, rivendicano un’autonomia che ha come conseguenza che nelle scuole di una e dell’altra parte si continui a insegnare una storia diversa. I giovani ereditano la paura e la rabbia dei genitori e si guardano con sospetto.

Non so niente di tutto questo mentre passeggiamo per il centro storico ma credo si avverta nell’aria una tensione profonda mescolata all’odore di caffè bosniaco che sa di liquirizia. Siamo alla ricerca della targa dedicata ai tre inviati Rai. Entriamo a Mostar est e non possiamo non notare i segni dalla guerra che ancora sfregiano gli edifici, molti inaccessibili, distrutti, senza finestre. Proviamo a domandare del luogo dell’incidente ma nessuno risponde. Poi incontriamo Ivan, commerciante di una delle bancarelle del centro, “non chiedete ai giovani, loro non possono ricordare” ci dice. Allunga la mano, prende foglio e penna e si mette a disegnare la strada con dovizia di particolari. “Mi ricordo di loro” ci spiega in un inglese scomposto, sembra felice che qualcuno si interessi a quella storia “si trovavano in un quartiere popolare non lontano da qui”. Ci lascia andare con una mappa: “Non potete sbagliarvi”.

Quel 28 gennaio di 25 anni fa era stato annunciato un cessate il fuoco. Era un’occasione unica per raggiungere Mostar est, bombardata senza tregua dalle milizie croate. Lo sapevano i giornalisti triestini Luchetta, Ota e D’Angelo che a bordo di un convoglio umanitario riuscivano finalmente a superare quel confine impenetrabile. Gli inviati sanno che in guerra non esistono regole, che la guerra stessa è imprevedibile come un cane rabbioso, ma ci si affidano comunque con la speranza di avere almeno il tempo di compiere quel dovere professionale e morale cui ci si rimette quando, nella vita, si scelgono determinate strade.

In quel cortile silenzioso, che raggiungiamo con 25 anni di distanza, riconosciamo un luogo di speranze invecchiate e promesse infrante. Le targhe scritte in bosniaco e in italiano, ne ricordano una in particolare: quella della tregua violata di quel giorno che si è portata via tre vite dedicate al prossimo. Le cronache dell’epoca raccontano che durante l’intervista un bambino di 4 anni aveva raggiunto i tre giornalisti all’esterno del rifugio. Giocava a pallone a pochi metri da loro quando dal cielo è piovuta la granata, un’esplosione, poi il silenzio. Oggi quel bambino ha 29 anni, si chiama Zlatko Omanovic, vive in Svezia come tanti bosniaci fuggiti dalla guerra. La sua vita, risparmiata grazie al sacrificio estremo dei tre inviati, diventa il simbolo di tante altre e una speranza, un senso ultimo per le famiglie in lutto che li aspettavano a casa.

La Fondazione Luchetta

Pochi mesi dopo quel tragico pomeriggio, nasce la Fondazione intitolata a Luchetta,  Ota e D’Angelo cui si aggiunge anche il nome di Miran Hrovatin, l’operatore ucciso il 20 marzo del ’94 a Mogadiscio insieme alla giornalista Ilaria Alpi. La città di Trieste, colpita al cuore da queste tragedie, si stringe nel loro ricordo e allo stesso tempo reagisce, si mobilita in difesa di tutti i bambini vittime della guerra.

Il primo ad essere salvato è proprio Zlatko, rimasto lievemente ferito nell’esplosione. Da allora, e dalla Bosnia, la Fondazione è cresciuta estendendo il suo raggio d’azione verso altri luoghi in cui si sono consumate e si consumano tuttora tragedie umanitarie finanche in Italia, dove in certi contesti incombe l’incubo della povertà e dell’isolamento sociale. Avvalendosi del prezioso aiuto di tanti volontari oggi la Fondazione ospita bambini in cura insieme ai loro familiari in tre centri di accoglienza per un totale di 76 posti letto, assicurando loro un percorso di guarigione, assistenza e supporto in un contesto di serena convivenza.

Vedendo oggi le foto di questi bambini penso alla forza che hanno alcune persone di trasformare il dolore in un dono da regalare al prossimo e all’orgoglio che si cela nel ricordo di una persona cara che se ne è andata troppo presto.

In quel cortile ieri, lasciavamo il nostro fiore per ogni parola spesa, ogni gesto fatto, ogni mano tesa, per l’onore e la gentilezza che uniscono ciò che è diviso, perché si ricordi sempre.

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